La regina della neve


Die Schneekönigin


Fiaba in sette storie
Prima storia, che tratta dello specchio e delle schegge
Guarda, adesso cominciamo, quando saremo alla fine della storia ne sapremo più di quanto ne sappiamo adesso, perché qui si parla di uno spirito cattivo, uno dei peggiori, "il diavolo." Un giorno era proprio di buon umore, perché aveva costruito uno specchio che aveva la facoltà di far sparire immediatamente tutte le cose belle e buone che vi si rispecchiavano, come non fossero state nulla; quello che invece era brutto e che appariva orribile, risaltava ancora di più. I più bei paesaggi sembravano spinaci cotti, e gli uomini migliori diventavano orribili o stavano schiacciati a testa in giù; i volti venivano così deformati che non erano più riconoscibili, e se qualcuno aveva una lentiggine, allora poteva essere ben sicuro che questa si sarebbe allargata fino al naso e alla bocca. Era straordinariamente divertente, diceva il diavolo. Se c'era un pensiero pio e buono questo nello specchio diventava una smorfia, così il diavolo doveva per forza ridere della sua divertente invenzione. Tutti quelli che andavano a scuola di magia, perché lui teneva una scuola di magia, raccontavano in giro che era successo un prodigio: adesso finalmente si poteva vedere, dicevano, come erano veramente il mondo e gli uomini. Corsero intorno con lo specchio e alla fine non ci fu più un solo paese o un solo uomo che non fosse stato deformato nello specchio. Ora volevano volare fino al cielo per prendersi gioco degli angeli e "di nostro Signore". Più volavano in alto con lo specchio, più questo rideva con violenza: riuscivano a malapena a tenerlo; volarono sempre più in alto, vicino a Dio e agli angeli; a un certo punto lo specchio tremò così terribilmente per le risate, che sfuggì loro di mano e precipitò verso la terra, dove si ruppe in centinaia di milioni, di bilioni di pezzi, e ancora di più. E così fece molto più danno di prima, perché alcuni pezzi erano piccoli come granelli di sabbia, e volavano intorno al vasto mondo, e quando entravano negli occhi della gente vi rimanevano, così la gente vedeva tutto storto, oppure vedeva solo il lato peggiore delle cose, perché ogni piccolo pezzettino dello specchio aveva mantenuto la stessa forza che aveva lo specchio intero. A qualcuno una piccola scheggia dello specchio cadde addirittura nel cuore, e questo fu veramente orribile: il cuore divenne come un pezzo di ghiaccio. Alcune schegge dello specchio erano invece così grandi che vennero usate per farne vetri da finestra, ma non era il caso di guardare i propri amici attraverso quei vetri; altri pezzi diventarono occhiali, e questo fu proprio un male, quando la gente metteva gli occhiali per vedere meglio e per essere obiettiva. Il maligno rideva tanto che lo stomaco gli ballava tutto, e gli faceva il solletico. Ma fuori volavano ancora piccoli pezzi di vetro nell'aria. Ora sentiamo cosa accadde.
Seconda storia. Un bambino e una bambina
Nella grande città, dove ci sono tante case e tanti uomini che non resta posto perché tutta la gente possa avere un giardinetto, e dove per questo la maggior parte della gente deve accontentarsi dei fiori nei vasi, abitavano due bambini poveri, che avevano però un giardino appena più grande di un vaso di fiori. Non erano fratelli, ma si volevano bene come se lo fossero stati. I genitori erano vicini di casa, abitavano in due soffitte nel punto in cui i tetti delle due case confinavano e le grondaie si univano si affacciava da ogni casa una finestrella; bastava solo scavalcare la grondaia, per poter passare da una finestra all'altra.
I genitori avevano messo lì fuori ognuno una grossa cassa di legno e in questa crescevano le erbe aromatiche che usavano in cucina, e un piccolo roseto; ce n'era uno in ogni cassa e cresceva proprio bene. Un giorno i genitori pensarono di mettere le casse in modo trasversale sulla grondaia, così da unire quasi le due finestre e creare come un terrapieno di fiori. I rametti del pisello pendevano dalle casse, i roseti allungavano i rami e si arrampicavano intorno alle finestre, intrecciandosi in un arco di trionfo di verde e di fiori. Poiché le cassette erano molto alte e i bambini sapevano che non potevano scavalcarle avevano avuto il permesso di uscire dalla finestra, sedersi sui loro piccoli seggiolini sotto le rose e lì giocare beatamente.
D'inverno però questo divertimento non c'era. Le finestre erano gelate, ma allora i bimbi scaldavano una monetina di rame e la mettevano sulla finestra gelata, perché si formasse un piccolo spiraglio rotondo; dietro ogni spiraglio faceva capolino un dolcissimo occhio, uno da ogni finestra; erano il bambino e la bambina. Lui si chiamava Kay e lei Gerda. D'estate con un balzo potevano incontrarsi; d'inverno dovevano invece scendere molte scale e poi salirne altrettante; c'era tempesta di neve.
"Sono bianche api che sciamano!" disse la vecchia nonna.
"Hanno anche loro un'ape regina?" chiese il bambino, perché sapeva che tra le vere api c'era anche una regina.
"Certo che ce l'hanno!" rispose la nonna. "Vola dove le api sono più fitte! È più grande di tutte, e non si posa mai sulla tena, risale di nuovo nel cielo scuro. Molte notti d'inverno vola attraverso le strade della città e guarda nelle finestre, allora queste gelano in modo stranissimo, come venissero ricoperte di fiori."
"Sì, l'ho visto!" esclamarono entrambi i bambini, e quindi sapevano che quella era la verità.
"La regina della neve può entrare qui?" chiese la bambina.
"Lascia che venga!" rispose il ragazzo. "La metto sulla stufa calda, così si scioglie."
Ma la nonna, carezzandogli i capelli, raccontava altre storie.
Di sera il piccolo Kay, già mezzo svestito, si arrampicò su una sedia vicino alla finestra e guardò fuori da quel piccolo buco, un paio di fiocchi di neve caddero là fuori e uno di questi, il più grande, restò posato sull'angolo di una delle cassette di fiori. Crebbe sempre più e alla fine si trasformò in una donna avvolta in sottilissimi veli bianchi che sembravano formati da milioni di fiocchi di neve brillanti come stelle. Era molto bella e fine, ma fatta di ghiaccio, di un ghiaccio splendente e brillante, eppure era viva; gli occhi osservavano come due chiare stelle, ma non c'era pace né tranquillità in loro. Fece cenno verso la finestra e salutò con la mano. Il bambino si spaventò e saltò giù dalla sedia, e allora fu come se là fuori volasse un grande uccello davanti alla finestra.
II giorno dopo tutto era gelato; poi venne il disgelo, e infine giunse la primavera, il sole splendette, il verde spuntò, le rondini costruirono i nidi, le finestre si aprirono e i bambini si ritrovarono nel loro piccolo giardino lassù vicino alla gronda del tetto sopra tutti gli altri piani.
Le rose quell'estate fiorirono meravigliose; la bambina aveva imparato un inno in cui si parlava di rose e arrivata a quel punto pensava alle sue; lo cantava insieme al ragazzino:
Le rose crescono nelle valli, laggiù parleremo con Gesù Bambino!
I piccoli si tenevano per mano, baciavano le rose e guardarono verso il sole di Dio parlando come se Gesù Bambino fosse stato là. Che belle giornate estive, come era bello stare fuori vicino a quei freschi roseti, che sembrava non volessero mai smettere di fiorire.
Kay e Gerda guardavano in un libro di figure immagini di animali e di uccelli, quando la campana batté proprio le cinque dal grande campanile, e Kay esclamò: "Ahi! Ho avuto una fitta al cuore, e mi è entrato qualcosa nell'occhio!".
La bambina gli prese il capo; lui sbatteva gli occhi, ma no, non si vedeva niente.
"Non credo che sia uscita" disse, ma non era così. Era proprio uno di quei granellini di vetro che si erano staccati dallo specchio, dallo specchio magico, ce lo ricordiamo quell'orribile specchio che rendeva tutte le cose grandi e buone che vi si specchiavano piccole e orribili, mentre le cose cattive e malvage risaltavano molto e di ogni cosa si vedevano subito i difetti. Povero Kay, anche lui aveva ricevuto un granello, proprio nel cuore. E il cuore gli sarebbe presto diventato di ghiaccio; ora non sentiva più male, ma il granello era sempre là.
"Perché piangi?" chiese. "Sei brutta quando piangi, e poi io non ho niente!" E improvvisamente gridò: "Uh! quella rosa è stata morsicata da un verme! E guarda: quell'altra è tutta storta! In fondo sono rose orribili! assomigliano alle cassette in cui si trovano!". E intanto col piede colpì duramente la cassetta e strappò due rose.
"Kay! che cosa fai?" gridò la bambina, e quando lui vide che lei si era spaventata, strappò un'altra rosa e corse via nella sua finestra, lontano dalla brava Gerda.
Quando poi lei arrivava col libro illustrato, lui diceva che era un passatempo per bambini, e quando la nonna raccontava le storie, lui interveniva sempre con un "Mah", e addirittura si metteva a camminare dietro di lei, si metteva i suoi occhiali e parlava proprio come la nonna; era bravissimo a imitarla e la gente rideva. Presto imparò a imitare la gente della strada. Tutto quello che c'era in loro di strano e brutto, Kay lo sapeva imitare, e così la gente diceva: "È proprio in gamba quel ragazzo!". Ma in realtà tutto accadeva per quel vetro che gli era entrato nell'occhio, quel vetro che gli stava sul cuore: per questo si comportava così, prendeva in giro persino la piccola Gerda, che gli voleva un bene dell'anima.
Ora i suoi passatempi erano ben diversi da quelli di prima erano molto seri: un giorno d'inverno, mentre nevicava forte arrivò con una grande lente di ingrandimento, sollevò fuori dalla finestra l'orlo della sua giacchetta blu e aspettò che i fiocchi di neve vi si posassero.
"Guarda in questa lente, piccola Gerda!" disse, e ogni fiocco di neve divenne molto grande e sembrò un meraviglioso fiore o una stella a dieci punte; era proprio meraviglioso.
"Vedi come è ben fatto!" disse Kay "è molto più interessante dei fiori veri. Non c'è neppure un difetto, sono tutti identici, se solo non si sciogliessero!"
Poco dopo ritornò con dei grossi guanti e con lo slittino sulla schiena, gridò nelle orecchie a Gerda: "Ho avuto il permesso di andare nella piazza grande dove giocano anche gli altri ragazzi!" e se n'era già andato.
Là nella piazza i ragazzi più arditi legavano i loro slittini ai carri dei contadini, così venivano trascinati per un bel pezzo: era molto divertente. Stavano giocando così quando giunse una grande slitta, tutta dipinta di bianco, dove sedeva una persona avvolta in una morbida pelliccia bianca e con un cappuccio in testa; la slitta fece due volte il giro della piazza e Kay vi legò svelto lo slittino, così si fece trascinare. Andò sempre più forte fino alla strada successiva; la persona che guidava voltò la testa e fece un cenno molto affettuoso a Kay, come se si conoscessero già; ogni volta che Kay voleva sciogliere il suo slittino quella gli faceva di nuovo cenno, e così Kay rimaneva seduto; corsero fino alla porta della città. Allora la neve cominciò a precipitare così fìtta che il fanciullo non poteva vedere a un palmo davanti a sé, mentre veniva trascinato via così sciolse velocemente il laccio per staccarsi dalla grande slitta, ma non servì a nulla, la sua piccola slitta rimase attaccata, e andava alla velocità del vento. Allora urlò forte, ma nessuno lo sentì e la neve continuava a cadere e la slitta continuava a correre, ogni tanto dava un balzo, era come se stesse passando sopra fossi o siepi. Kay era spaventatissimo, voleva recitare il Padre Nostro, ma riusciva solo a ricordare la tavola pitagorica.
I fiocchi di neve diventavano sempre più grandi, alla fine sembravano grosse galline bianche; improvvisamente la slitta balzò di lato, si fermò e la persona che la guidava si alzò; la pelliccia e il cappuccio erano fatti di neve, e lei era una dama, alta e snella, di un candore splendente, era la regina della neve.
"Abbiamo fatto un bel giro!" esclamò "ma che freddo! Riparati nella mia pelliccia di orso!" e se lo mise vicino sulla slitta e gli avvolse intorno la pelliccia, e a lui sembrò di affondare in una montagna di neve.
"Hai ancora freddo?" chiese, baciandolo sulla fronte. Oh! il bacio era più freddo del ghiaccio, e gli andò direttamente al cuore, che già era un pezzo di ghiaccio. Gli sembrò di morire. Ma solo per un attimo, poi si sentì bene; e non notò più il freddo tutt'intorno.
"Lo slittino? Non dimenticare il mio slittino!" fu la prima cosa che ricordò; lo slittino venne legato a una delle galline bianche, che seguivano volando la slitta della regina. La regina della neve diede un altro bacio a Kay e subito lui dimenticò la piccola Gerda e tutti quelli che erano a casa.
"Non ti darò più baci!" esclamò lei "altrimenti ti farei morire."
Kay la guardò: era così bella, un viso più bello e intelligente non lo avrebbe potuto immaginare; ora non sembrava più di ghiaccio, come quella volta che l'aveva vista fuori dalla finestra mentre gli faceva cenno: ai suoi occhi appariva perfetta, non sentì affatto paura, le raccontò che sapeva fare i calcoli a memoria, anche con le frazioni, che conosceva l'estensione in miglia quadrate dei vari paesi e il numero degli abitanti; lei continuava a sorridergli. Allora Kay pensò che non era abbastanza quello che conosceva, così guardò in alto, nel grande spazio dell'aria, e la regina volò con lui, volò in alto su una nera nuvola, mentre la tempesta infuriava e fischiava, sembrava che cantasse vecchie canzoni. Volarono sopra boschi e laghi, sopra giardini e paesi, sotto di loro soffiava il freddo vento, ululavano i lupi, la neve cadeva, sopra di loro volavano neri corvi gracchianti, ma sopra a tutto brillava la luna, grande e luminosa, e alla luna Kay guardò in quella lunghissima notte d'inverno; quando venne il giorno dormiva ai piedi della regina della neve.
Terza storia. Il giardino fiorito della donna che sapeva compiere magie
Ma come si sentì la piccola Gerda quando Kay non tornò più indietro? Dov'era finito? Nessuno lo sapeva, nessuno sapeva dare informazioni. I ragazzi raccontarono solo che lo avevano visto legare il suo slittino a una magnifica slitta che era passata per quella piazza e era poi uscita dalla porta della città. Nessuno sapeva dove fosse, molte lacrime scorsero, la piccola Gerda pianse profondamente e a lungo, poi dissero che era morto, che era affogato nel fiume che passava vicino alla città oh, furono proprio lunghi scuri giorni d'inverno.
Poi venne la primavera con il sole caldo.
"Kay è morto, è sparito" disse la piccola Gerda
"No, non lo credo!" rispose il sole.
"È morto, è sparito" lei diceva alle rondini.
"Non lo crediamo!" rispondevano loro, e alla fine non lo credette più nemmeno la piccola Gerda.
"Mi metterò le mie nuove scarpette rosse" disse una mattina "quelle che Kay non hai mai visto, e poi andrò al fiume a chiedere di lui."
Era molto presto, lei baciò la vecchia nonna che ancora dormiva, si mise le scarpette rosse e si diresse tutta sola fuori dalla città verso il fiume.
"È vero che hai preso il mio piccolo compagno di giochi? Ti regalerò le mie scarpette rosse se me lo renderai di nuovo."
Le sembrò che le onde facessero dei cenni molto strani; allora prese le scarpette rosse, quelle che le erano più care, e le gettò nel fiume, ma caddero vicino alla riva e le onde le riportarono immediatamente a terra. Sembrava che il fiume non volesse prendere la cosa più cara a Gerda, poiché non poteva restituirle il piccolo Kay; lei invece credette di non aver gettato le scarpe abbastanza al largo, così salì su una barchetta che si trovava tra le canne, avanzò fino alla prua, e da li gettò le scarpette, ma la barca non era legata bene e per quel movimento che lei fece si allontanò da terra; Gerda lo capì e subito cercò di scendere, ma prima che fosse tornata indietro la barca era già lontana più di un braccio dalla riva e ora galleggiava sempre più veloce.
La piccola Gerda si spaventò terribilmente e si mise a piangere; nessuno la udì eccetto i passeri, ma questi non la potevano riportare a terra; comunque volarono lungo la sponda e cantarono, come per consolarla: "Siamo qui! Siamo qui!". La barca seguiva la corrente; la piccola Gerda se ne stava seduta scalza: le sue scarpette rosse galleggiavano dietro la barca, ma non riuscivano a raggiungerla perché quella correva più veloce.
Le due sponde erano belle, con splendidi fiori, vecchi alberi e i pendii pieni di pecore e di mucche, ma non si vedeva neppure un uomo.
"Forse il fiume mi porterà dal piccolo Kay" pensò Gerda e così le tornò il buonumore, si alzò e guardò per molte ore le due belle rive verdi; poi giunse a un grande giardino di ciliegi dove si trovava una casetta con strane finestre rosse e blu e il tetto di paglia; due soldati di legno presentavano le armi a quanti passavano di lì in barca.
Gerda gridò verso di loro, credeva fossero vivi, ma loro naturalmente non risposero. Gli passò molto vicino, e il fiume spingeva la barchetta proprio verso terra.
Gerda gridò ancora più forte, così uscì dalla casa una donna vecchissima che si appoggiava a un bastone ricurvo; aveva in testa un grande cappello di paglia su cui erano dipinti i fiori più belli.
"Oh, povera bambina" esclamò la vecchia "come hai fatto a essere presa da questa forte corrente e venir trascinata così lontano nel vasto mondo!" e intanto entrava in acqua; afferrò col bastone ricurvo la barca, la portò a riva e sollevò la piccola Gerda.
Gerda era contenta di trovarsi all'asciutto, ma aveva un po' paura di quella vecchia sconosciuta.
"Vieni, raccontami chi sei e come sei arrivata qui" le disse la vecchia.
Gerda le raccontò ogni cosa e la vecchia scuoteva il capo e diceva: "Uhm! Uhm!". Quando Gerda, dopo aver narrato tutto, le chiese se per caso non aveva visto il piccolo Kay, la donna rispose che non era ancora passato di lì ma che sarebbe senz'altro venuto; quindi lei non doveva essere così triste, ma doveva assaggiare le sue ciliege e guardare i fiori che erano molto più belli di quelli dei libri illustrati, perché ognuno di loro sapeva raccontare un'intera storia. Prese Gerda per mano e entrarono nella casetta, e la vecchia chiuse la porta a chiave.
Le finestre erano molto alte e i vetri erano rossi, blu e gialli; la luce del giorno splendeva strana lì dentro con tutti i colori ma sul tavolo c'erano ciliege bellissime e Gerda ne mangiò quante volle, perché lì non aveva nessuna paura. Mentre lei mangiava, la vecchia le pettinava i capelli con un pettine d'oro, e i capelli si arricciavano e splendevano di un oro delizioso intorno al grazioso vi sino, che era rotondo e sembrava una rosa.
"Da tanto tempo desideravo una bambina così dolce!" esclamò la vecchia. "Vedrai come staremo bene insieme noi due" e mentre pettinava i capelli della piccola Gerda la bambina dimenticava sempre più Kay, il suo compagno di giochi, perché la vecchia sapeva fare magie, ma non era una maga cattiva, faceva magie solo per il suo divertimento, e ora voleva semplicemente trattenere presso di sé la piccola Gerda. Per questo uscì in giardino, tese il bastone ricurvo verso tutti i rosai che erano splendidamente fioriti, e questi sparirono tutti quanti nella terra nera e non si potè più capire dove stavano prima. La vecchia infatti temeva che Gerda, vedendo le rose, potesse pensare alle sue, e quindi ricordare il piccolo Kay e fuggire.
La vecchia condusse poi Gerda nel giardino fiorito. Che profumo, e che splendore! Tutti i fiori immaginabili, di ogni stagione, si trovavano lì, e tutti in fiore; nessun libro illustrato poteva essere più bello e più colorato. Gerda saltò di gioia e giocò finché il sole non scese dietro i grandi alberi di ciliegi, allora ebbe un delizioso lettino con le coperte di seta rossa, ricamate a violette azzurre; dormì e sognò beatamente, come nessuna regina avrebbe fatto neppure il giorno del suo matrimonio.
Il giorno dopo potè giocare ancora al sole, con i fiori, e così passarono molti giorni. Gerda conosceva ogni fiore, ma nonostante fossero molti, le sembrava che ne mancasse uno, però non sapeva quale.
Un giorno si mise a guardare il vecchio cappello di paglia della donna, con tutti quei fiori disegnati, e il più bello di questi era una rosa. La vecchia aveva dimenticato di farla sparire dal cappello, quando aveva seppellito le altre nella terra. Eh, non si può pensare sempre a tutto!
"Come!" esclamò Gerda "non c'è neppure una rosa?" Saltò tra le aiuole, cercò e cercò, ma non ne trovò nessuna, allora si sedette e cominciò a piangere, ma le sue calde lacrime caddero proprio dove un rosaio era stato seppellito. E quando quelle lacrime bagnarono la terra, il rosaio improvvisamente spuntò fuori, tutto in fiore proprio come quando era sprofondato, e Gerda lo abbracciò, baciò le rose e pensò a quelle splendide rose di casa sua e così pensò anche al piccolo Kay.
"Oh, quanto tempo ho perso!" disse la bambina. "Devo trovare Kay! Voi non sapete dove si trova?" chiese alle rose "credete che sia morto?"
"No, non è morto" risposero le rose. "Noi siamo state sotto terra, là si trovano tutti i morti, e Kay non c'era."
"Grazie!" disse la piccola Gerda, dirigendosi verso gli altri fiori; guardò nei loro calici e chiese: "Voi non sapete dove si trova il piccolo Kay?".
Ma ogni fiore si trovava al sole a sognare la sua favola o la sua storia, e la piccola Gerda ne sentì moltissime, ma nessuna le parlava di Kay.
Che cosa disse il giglio rosso?
"Senti il tamburo? bum! bum! ci sono solo due tonalità, sempre bum! bum! Senti il lamento di dolore delle donne? Senti il grido dei sacerdoti? Nel suo lungo mantello la donna indiana sta sul rogo, le fiamme avvolgono lei e il marito morto ma la donna indiana pensa a colui che vive, a colui i cui occhi bruciano il suo cuore più caldi delle fiamme che presto trasformeranno il suo corpo in cenere. Può la fiamma del cuore morire nella fiamma del rogo?"
"Io non capisco niente!" disse la piccola Gerda.
"È la mia storia!" disse il giglio rosso.
Che cosa dice il convolvolo?
"Là in fondo alla stretta strada di montagna si trova una antica rocca; la fitta edera verde cresce lungo i vecchi muri rossi, foglia dopo foglia, fino intorno al balcone, lì si trova una graziosa fanciulla che si affaccia oltre il parapetto e guarda verso la strada. Nessuna rosa che spunta tra i rami è più fresca di lei, nessun fiore di melo, che il vento porta via dall'albero, è più leggero di lei; come fruscia il suo magnifico mantello di seta! "Eppure lui non arriva!.""
"E Kay che intendi?" chiese la piccola Gerda.
Che cosa racconta la piccola primula?
"Legata agli alberi con due corde pende una lunga asse, è un altalena; due graziose fanciulle con abiti bianchi come la neve e lunghi nastri di seta verde legati tra i capelli, si dondolano; il fratello, che è più grande di loro, sta in piedi sull'altalena e si regge alla corda con il braccio, perché in una mano ha una piccola bacinella e nell'altra una cannuccia di gesso, con cui soffia le bolle di sapone. L'altalena va, e le bolle volano splendide nei loro colori cangianti; l'ultima è ancora attaccata alla cannuccia e si piega al vento; l'altalena va. Il cagnolino nero, leggero come le bolle, si solleva sulle zampe posteriori e vuol salire anche lui sull'altalena, questa vola, il cane cade, abbaia e si arrabbia; rimane con un palmo di naso le bolle scoppiano. Un'asse che dondola, un'immagine fatta di schiuma che scoppia, questa è la mia canzone!"
"Può darsi che sia bello quello che racconti, ma lo dici con una tale tristezza e non parli affatto di Kay."
Che cosa dicono i giacinti?
"C'erano una volta tre bellissime sorelle, pallide e sottili, una vestita di rosso, un'altra di blu e la terza di bianco, danzavano tenendosi per mano vicino al tranquillo laghetto al chiaro di luna. Non erano fanciulle degli elfi, erano figlie degli uomini. C'era un profumo così dolce, e le fanciulle sparirono nel bosco. Il profumo diventò sempre più intenso, tre bare in cui giacevano le graziose fanciulle si staccarono dal fitto del bosco verso il lago; le luminose lucciole volavano tutt'intorno, come piccole deboli luci. Dormono le fanciulle danzanti, o sono morte? Il profumo dei fiori dice che sono cadaveri; la campana della sera suona per i morti."
"Mi rendi così triste!" disse la piccola Gerda. "Hai un profumo così forte; mi fai pensare alle fanciulle morte. Ah, allora anche il piccolo Kay è ormai morto? Le rose sono state giù nella terra e dicono di no."
"Din, din, dan, dan!" suonarono le campane dei giacinti. "Noi non suoniamo per il piccolo Kay, non lo conosciamo neppure! Noi cantiamo solo la nostra canzone, l'unica che conosciamo!"
Gerda s'incamminò verso il ranuncolo, che brillava tra le verdi foglie luccicanti.
"Tu sei un piccolo sole chiaro" gli disse. "Dimmi se sai dove posso trovare il mio compagno di giochi!"
E il ranuncolo brillò così delizioso guardando verso Gerda.
Quale canzone poteva cantare il ranuncolo? Neppure la sua parlava di Kay.
"In un piccolo cortile brillava il sole di Nostro Signore così caldo nel primo giorno di primavera; i raggi cadevano lungo la bianca parete della casa del vicino ai cui piedi crescevano i primi fiori gialli, brillando come d'oro ai caldi raggi del sole; la vecchia nonna era fuori sulla sua seggiola, la nipotina, una graziosa ma povera servetta, venne a casa per una breve visita, e baciò la nonna. C'era oro, l'oro del cuore in quel bacio benedetto. Oro sulla bocca, oro nel fondo del cuore, oro quassù nelle prime ore del mattino! Ecco questa è la mia piccola storia!" disse il ranuncolo.
"La mia povera vecchia nonna!" sospirò Gerda. "Certamente ha nostalgia di me, è triste per me, come lo era stata per il piccolo Kay, ma io tornerò presto a casa, e porterò Kay con me. Non serve a nulla che io chieda ai fiori, loro conoscono solo le loro canzoni, non mi danno notizie." Così si rimboccò il vestitino per correre più in fretta; ma il narciso le colpì una gamba, mentre lei gli saltava sopra; allora si fermò, guardò quel lungo stelo giallo e chiese: "Tu sai forse qualcosa?" e gli si chinò sopra fino a toccarlo.
Che cosa disse il narciso?
"Io posso vedermi, io posso vedermi!" disse. "Oh, come profumo! Su nella piccola soffitta, mezza svestita, si trova una piccola ballerina, lei sta in piedi alcune volte su una gamba sola, a volte su due, tira calci a tutto il mondo; ma è solo un'illusione. Versa l'acqua della teiera su un pezzo di stoffa che tiene in mano, è il suo corpettino. La pulizia è una buona cosa! Anche l'abitino bianco che tiene appeso al gancio viene lavato nell'acqua della teiera e poi messo a asciugare sul tetto; lei lo indossa, con un fazzoletto giallo come lo zafferano intorno al collo, così l'abitino sembra ancora più bianco. Gamba in aria! Guarda come si regge su un piedino! Io posso vedermi! Io posso vedermi!"
"Non mi interessa nulla!" esclamò Gerda "non sono cose da raccontare a me!" e intanto se ne corse verso la siepe del giardino.
Il cancello era chiuso, ma lei rimosse il gancio arrugginito che si staccò, così la porta si aprì e lei corse a piedi nudi nel vasto mondo. Per tre volte si guardò indietro, ma nessuno la rincorreva; alla fine non potè più correre e sedette su una grande pietra, si guardò intorno, l'estate era passata, era già autunno inoltrato, ma non lo si notava nel bel giardino dove brillava sempre il sole e si trovavano i fiori di tutte le stagioni.
"Oh, Signore, come ho fatto tardi!" esclamò la piccola Gerda. "È già autunno: ora non posso neppure riposarmi!" e si alzò per ripartire.
Oh, come erano stanchi e doloranti i suoi piedini, e che freddo e che tristezza c'era tutt'intorno; le lunghe foglie dei salici erano tutte gialle, stillanti di brina; una foglia cadeva dopo l'altra, solo il susino aveva ancora i frutti, ma così amari che legavano i denti. Oh, com'era grigio e triste il vasto mondo!
Quarta storia. Il principe e la principessa
Gerda dovette riposarsi di nuovo; allora una grossa cornacchia saltellò sulla neve proprio davanti a lei; rimase seduta a lungo osservandola e scuotendo la testa, poi disse: "Cra, era! Buon dì, Buon dì!"; meglio non riuscì a dirlo, ma era ben disposta verso la fanciulla e le chiese come mai se ne andasse tutta sola nel vasto mondo. La parola: sola, Gerda la capì molto bene e sentì tutto quello che significava; così raccontò alla cornacchia tutta la sua vita e le chiese se non avesse visto Kay.
La cornacchia mosse la testa pensierosa e disse: "Può essere! Può essere!".
"Lo credi?" gridò la piccola Gerda e si mise a baciarla con tale foga che quasi la stava uccidendo.
"Piano, piano!" disse la cornacchia. "Credo che possa essere il piccolo Kay, ma sicuramente ora ti ha dimenticato per la principessa!"
"Abita presso una principessa?" chiese Gerda.
"Sì, ascolta!" disse la cornacchia. "Ma io ho difficoltà a parlare la tua lingua; se tu capissi il linguaggio delle cornacchie, potrei raccontartelo meglio."
"No, non l'ho imparato" esclamò Gerda "ma la nonna lo sapeva parlare, e sapeva anche il linguaggio dei neonati. Se solo l'avessi imparato anch'io!"
"Non importa!" disse la cornacchia "racconterò meglio che posso, ma certo mi verrà male" e così raccontò quello che sapeva.
"In questo regno, dove ci troviamo ora, abita una principessa straordinariamente intelligente; legge tutti i giornali che ci sono al mondo e poi li dimentica di nuovo, tanto è intelligente. Un giorno, mentre sedeva sul trono, che non è una cosa molto divertente, si mise a canticchiare una canzone che diceva così: "Perché non dovrei sposarmi?." - "Ecco è proprio un'idea!" esclamò, e così si volle sposare, ma voleva avere un marito che sapesse rispondere quando lei gli avesse rivolto la parola, uno che non se ne stesse lì fermo e ben distinto, perché è molto noioso. Allora riunì tutte le dame di corte e quando queste sentirono che cosa voleva, si dimostrarono molto contente. "Molto bene!" dissero "l'altro giorno pensavamo proprio a questo." Puoi credere a ogni parola che ti dico!" soggiunse la cornacchia. "Ho una fidanzata addomesticata, che abita al castello, e mi ha raccontato tutto lei."
La sua fidanzata era naturalmente anche lei una cornacchia; perché ogni cornacchia cerca il suo simile, che è una cornacchia.
"Subito uscirono i giornali con il bordo pieno di cuori, e con il simbolo della principessa; ci si poteva leggere che ogni giovane di bell'aspetto era libero di andare al castello e di parlare con la principessa, e chi avesse parlato completamente a suo agio, e meglio di tutti, sarebbe stato prescelto dalla principessa! Sì, sì" disse la cornacchia "puoi credermi, è proprio vero, come il fatto che noi stiamo qui; la gente accorreva, ci fu un gran movimento e una gran folla! Ma la faccenda non si risolse, né il primo giorno, né il secondo. Tutti sapevano parlare bene, quando si trovavano per strada, ma non appena entravano nel portone del castello e vedevano la guardia vestita d'argento e su per le scale e i valletti vestiti d'oro, e le grandi sale illuminate, allora si confondevano. Così si trovavano davanti al trono dove stava la principessa, e non sapevano dire nulla se non l'ultima parola che lei aveva detto, e a lei naturalmente non interessava risentirla! Era come se la gente lì dentro avesse ingerito del tabacco e fosse caduta in letargo, finché non usciva di nuovo sulla strada, allora sapeva parlare! C'era una fila che andava dalle porte della città fino al castello. Io stesso ero lì a vedere!" raccontò la cornacchia. "Tutti avevano fame e sete, ma dal castello non ebbero neppure un bicchiere d'acqua tiepida, certo qualcuno dei più intelligenti s'era portato dei panini da casa, ma non li divise con i vicini, perché pensava: "Se questo sembra affamato, la principessa non lo sceglierà!.""
"Ma Kay, il piccolo Kay?" chiese Gerda "quando arriva? Era tra tutti gli altri?"
"Dammi tempo, dammi tempo! Adesso arriviamo anche a lui. Era il terzo giorno quando arrivò una personcina senza cavallo e senza carrozza, che marciava ardita verso il castello, i suoi occhi brillavano come i tuoi, aveva lunghi capelli bellissimi, ma aveva vestiti molto poveri."
"Era Kay!" gridò Gerda felice. "Ah, allora l'ho trovato!" e si mise a battere le mani.
"Aveva un fagotto sulle spalle!" aggiunse la cornacchia
"No, era certo lo slittino" spiegò Gerda "perché se ne era andato con la slitta."
"È possibile" disse la cornacchia. "Io non ho guardato attentamente. Ma so dalla mia fidanzata che quando arrivò alla porta del castello e vide la guardia vestita d'argento e poi lungo le scale i valletti vestiti d'oro, non restò affatto imbarazzato: fece un cenno e disse: "Dev'essere noioso restare lì sulle scale, io preferisco entrare." Le sale splendevano per le candele; i consiglieri e i ministri camminavano a piedi nudi e portavano vassoi d'oro: c'era di che restare imbarazzati! I suoi stivali scricchiolavano terribilmente, ma lui non aveva timore!"
"È sicuramente Kay!" disse Gerda. "So che aveva gli stivali nuovi, li ho sentiti scricchiolare nella camera della nonna."
"Ah, sì, scricchiolavano davvero!" disse la cornacchia. "Ma lui se ne andò tranquillamente dalla principessa, che sedeva su una perla grande come la ruota di un fuso; tutte le dame di corte con le loro cameriere e con le cameriere delle cameriere, e tutti i cavalieri con i loro servitori e con i servitori dei servitori, che avevano con loro i paggi, se ne stavano impalati tutt'intorno; e più erano vicini alla porta, più apparivano pieni di superbia. Il paggio del servitore dei servitori, che va sempre in giro in pantofole, non lo si poteva quasi guardare, tanto se ne stava fiero vicino alla porta!"
"Deve essere orribile!" esclamò la piccola Gerda. "E Kay? Ha sposato la principessa?"
"Se non fossi stato una cornacchia, l'avrei sposata io, anche se sono già fidanzato. Deve aver parlato molto bene, come parlo io nella lingua delle cornacchie: questo mi ha raccontato la mia fidanzata. Era proprio audace e grazioso; non era venuto per chiedere la mano della principessa; ma solo per sentire la sua intelligenza, e la trovò eccezionale, come lei trovò eccezionale lui."
"Di certo era Kay!" disse Gerda. "Era così intelligente: sapeva fare i conti a memoria con le frazioni! Oh, non mi puoi far entrare nel castello?"
"Già, è facile a dirsi!" disse la cornacchia. "Ma come possiamo fare? Devo parlarne alla mia cara fidanzata; lei ci saprà consigliare bene; perché, questo te lo devo dire, una bambina come te non avrà mai il permesso di entrare ufficialmente."
"Sì che lo avrò" rispose Gerda. "Quando Kay saprà che sono qui, verrà senz'altro fuori a prendermi."
"Aspettami là vicino a quel varco!" disse la cornacchia, e scuotendo il capo volò via.
La cornacchia tornò quando già era venuto buio. "Cra, era era!" disse. "Devo salutarti da parte della mia fidanzata. E qui c'è un panino per te. L'ha preso in cucina, ce n'è tanto di pane e tu sei sicuramente affamata. Non è possibile che tu entri nel castello: sei a piedi nudi e la guardia vestita d'argento e i valletti vestiti d'oro non te lo permetterebbero. Ma non piangere, entrerai ugualmente. La mia fidanzata conosce una piccola entrata sul retro, che conduce alla camera da letto, e lei sa bene dove prendere le chiavi."
Entrarono nel giardino per il grande viale, dove le foglie cadevano una dopo l'altra, e quando al castello le luci si spensero a una a una, la cornacchia condusse la piccola Gerda a una porta sul retro che era socchiusa.
Oh, come batteva il cuore di Gerda per la paura e per la nostalgia! Era come se stesse facendo qualcosa di male, ma in realtà voleva solo sapere se si trattava del piccolo Kay. Certo, doveva essere lui, e Gerda ricordò i suoi occhi intelligenti, i suoi lunghi capelli; le sembrava proprio di vederlo sorridere, come quando erano a casa sotto le rose. Lui sarebbe certamente stato contento di vederla e di sentire che lungo cammino aveva percorso per ritrovarlo e come tutti a casa erano stati tristi quando lui non era ritornato. Oh, era paura e gioia insieme.
Ora si trovavano sulla scala; su un armadio brillava una piccola lampada. In mezzo al pavimento stava la cornacchia domestica che girava la testa da tutte le parti e osservava Gerda fare l'inchino proprio come le aveva insegnato la nonna.
"Il mio fidanzato ha parlato così bene di voi, mia piccola signorina!" disse la cornacchia domestica. "Il vostvocurriculum vitae , come si dice, è molto commovente! Se prenderete la lanterna, vi precederò. Faremo la strada più diretta, perché non incontreremo nessuno."
"Mi sembra che qualcuno ci stia seguendo" disse Gerda. Qualcosa al suo fianco fischiava; era come se ci fossero ombre sulle pareti, cavalli con le criniere svolazzanti e le zampe snelle, giovani cacciatori, dame e signori sui cavalli.
"Sono solo sogni!" disse la cornacchia. "Vengono a prendere i pensieri delle Loro Maestà per portarli a caccia, e è un bene, così voi potrete osservarli meglio nei loro letti. Ma speriamo che se arriverete a ottenere onori e riconoscimenti, mostrerete un cuore riconoscente."
"Non si deve parlare di queste cose!" esclamò la cornacchia del bosco.
Poi entrarono nel primo salone, che era tappezzato di raso rosa a fiori, qui i sogni passarono fischiando, ma se ne andarono così in fretta che Gerda non riuscì a vedere le Loro Maestà. I saloni erano uno più bello dell'altro, davvero c'era da rimanere stupefatti; ora si trovavano nella camera da letto. Il soffitto là dentro somigliava a una grossa palma con foglie di vetro, di un vetro prezioso, e in mezzo al pavimento erano appesi a un grosso stelo d'oro due letti, che sembravano gigli; uno era bianco e vi si trovava la principessa; l'altro era rosso, e era quello dove Gerda doveva cercare il piccolo Kay. Sollevò uno dei petali rossi e vide una nuca bruna: oh, era certo Kay! Gridò a voce alta il suo nome e gli avvicinò la lampada. I sogni a cavallo fuggirono dal salone; il principe si svegliò, voltò il capo... oh, non era il piccolo Kay!
Gli assomigliava soltanto per la nuca, ma era anche lui giovane e bello. Dal letto bianco a forma di giglio si affacciò la principessa e chiese che cosa stesse succedendo. Allora la piccola Gerda si mise a piangere e raccontò tutta la sua storia e tutto quello che le cornacchie avevano fatto per lei.
"Oh poverina!" esclamarono il principe e la principessa e lodarono le cornacchie, dicendo che non erano affatto in collera con loro, ma che naturalmente non avrebbero più dovuto farlo. Per quella volta avrebbero ricevuto una ricompensa.
"Volete volare libere?" chiese la principessa "oppure volete avere un incarico fisso come cornacchie di corte con il diritto di mangiare tutto quello che avanza in cucina?"
Entrambe le cornacchie s'inchinarono e scelsero l'impiego fisso; pensavano alla vecchiaia e si dissero che era un bene avere qualcosa per i giorni bui, come si usa dire.
Il principe si alzò dal letto e vi fece dormire Gerda, ma di più non poteva fare. Lei giunse le manine e pensò: "Come sono buoni gli uomini e gli animali!" e così chiuse gli occhi e dormì tranquillamente. Tutti i sogni rientrarono volando, e apparivano ora come angeli del Signore: trascinavano una piccola slitta dove sedeva Kay che salutava. Ma era solo un sogno, e quando Gerda si risvegliò era tutto sparito di nuovo.
Il giorno dopo venne rivestita da capo a piedi di seta e di velluto, le venne offerto di rimanere al castello con un futuro assicurato, ma lei chiese solo di poter avere una piccola carrozza con un cavallo e un paio di stivaletti, così da poter viaggiare di nuovo nel vasto mondo in cerca di Kay.
Ottenne stivaletti e manicotto: era molto graziosa vestita così, e quando volle partire si fermò davanti alla porta una carrozza nuova di oro puro con lo stemma del principe e della principessa lucente come una stella; il postiglione, i servitori, e i valletti a cavallo - perché c'erano anche i valletti a cavallo - avevano in testa corone d'oro. Il principe e la principessa aiutarono la piccola a salire sulla carrozza e le augurarono ogni bene. La cornacchia del bosco, che ora si era sposata, la seguì per le prime tre miglia: sedeva vicino a lei perché non sopportava di viaggiare dietro; l'altra cornacchia rimase al portone e sbatté le ali: non li seguì perché soffriva di mal di testa da quando aveva un impiego fìsso e troppo da mangiare. Nella carrozza si trovavano croccanti di zucchero, e sul sedile avevano messo frutta e panpepato.
"Addio! Addio!" gridarono il principe e la principessa, e la piccola Gerda pianse, e anche la cornacchia pianse, così passarono le prime miglia, poi anche la cornacchia salutò e questo fu il congedo più doloroso. Volò in alto, su un albero, e sbatté le ali nere finché potè vedere la carrozza, che luccicava come il sole.
Quinta storia. La figlia del brigante
Viaggiarono attraverso i boschi scuri, ma la carrozza brillava come una fiamma, e abbagliava gli occhi dei briganti, che non riuscivano a sopportarla.
"È oro, è oro!" gridarono, avanzando di corsa, presero i cavalli, uccisero il postiglione, i valletti e i servitori, e tirarono fuori la piccola Gerda dalla carrozza.
"È grassa, è graziosa, è stata ingrassata con gheriglio di noci!" disse la vecchia moglie del brigante, che aveva una lunghissima barba arricciata e sopracciglie che le coprivano gli occhi. "Deve essere buona come un agnellino! Uh, deve essere saporita!" e intanto tirò fuori il coltello che scintillò orribilmente. "Ahi!" esclamò in quello stesso momento.
Era stata morsicata all'orecchio dalla figlioletta, che s'era appesa alla sua schiena e che era terribilmente selvaggia e insolente.
"Mocciosa!" esclamò la madre, ma non fece in tempo a colpire Gerda.
"Deve giocare con me!" disse la figlia del brigante. "Mi deve dare il suo manicotto, i suoi bei vestiti, e dormirà nel mio letto!" e così diede un altro morso cosicché la moglie del brigante saltò in aria e girò su se stessa e tutti i briganti si misero a ridere dicendo: "Guarda come balla con sua figlia!".
"Voglio andare in carrozza!" disse la figlia del brigante, e riuscì a ottenere quello che voleva perché era molto ostinata e viziata.
Lei e Gerda salirono in carrozza e corsero oltre sterpi e rovi fino nel più profondo del bosco. La figlia del brigante era grande come Gerda, ma molto più forte, più robusta e con la pelle scura, aveva gli occhi neri che sembravano quasi tristi. Afferrò la piccola Gerda alla vita e le disse: "Non ti uccideranno finché io non mi arrabbierò con te! Sei forse una principessa?".
"No" rispose la piccola Gerda, e le raccontò tutto quello che aveva vissuto, e quanto volesse bene al piccolo Kay.
La figlia del brigante la guardò molto seriamente, fece un cenno con la testa e disse: "Non ti ammazzeranno, anche se io mi arrabbierò con te, perché lo farò io stessa!". Intanto asciugò gli occhi di Gerda e infilò le mani nel bel manicotto così morbido e caldo.
La carrozza si fermò. Si trovava in mezzo al cortile di un castello di briganti; tutto era decrepito, da cima a fondo, corvi e cornacchie uscivano volando da tutti i fori, e grandi mastini, che sembrava potessero mangiare un uomo, saltavano in aria, ma non abbaiavano perché era proibito.
Nella grande vecchia sala annerita dal fumo si trovava in mezzo al pavimento di pietra un grosso fuoco; il fumo saliva verso il soffitto e doveva trovare da sé un'uscita; in un grande pentolone cuoceva la zuppa e sullo spiedo giravano conigli e lepri.
"Dormirai con me questa notte e con tutti i miei animaletti!" disse la figlia del brigante. Mangiarono e bevvero e poi andarono in un angolo dove si trovavano paglia e coperte. Un po' più in alto, su pertiche e assicelle, erano appollaiati quasi cento colombi: sembrava che dormissero, ma si mossero un po' quando le bambine arrivarono.
"Sono tutti miei" disse la figlia del brigante, e afferrò in fretta uno dei più vicini, tenendolo poi per le zampe e agitandolo, in modo che sbattesse le ali. "Bacialo!" gridò, sbattendoglielo sulla faccia. "Là ci sono i miei colombi selvatici!" continuò indicando le sbarre che chiudevano un buco nel muro. "Sono colombi selvatici quei due! Se ne volerebbero subito via, se non fossero chiusi a chiave. E qui si trova la mia carissima renna" e tirò per le corna una renna, che aveva un anello di rame luccicante intorno al collo e era legata. "Anche questa deve stare in gabbia, altrimenti scappa via. Ogni sera le faccio il solletico sotto il collo con il mio coltello affilato e lei ha così paura!" e prese un lungo coltello da una fessura del muro e lo fece scorrere sul collo della renna; quel povero animale si mise a tirar calci, e la figlia del brigante rise forte e trascinò Gerda con sé nel letto.
"Tieni il coltello con te anche quando dormi?" chiese Gerda guardandolo un po' impaurita.
"Dormo sempre col coltello!" rispose la figlia del brigante. "Non si sa mai quello che può succedere. Ma raccontami di nuovo quello che mi hai detto prima sul piccolo Kay e su come sei andata in giro per il vasto mondo." Gerda raccontò dal principio, e i colombi selvatici tubavano nella gabbia, mentre gli altri dormivano. La figlia del brigante mise il braccio intorno al collo di Gerda, tenendo il coltello nell'altra mano, e dormì facendo molto rumore; Gerda invece non riuscì affatto a chiudere gli occhi, non sapeva se sarebbe vissuta o se sarebbe morta. I briganti erano seduti intorno al fuoco, cantavano e bevevano, e la moglie del brigante faceva le capriole. Oh, era orribile a vedersi per la piccola Gerda.
Allora i colombi del bosco dissero: "Curri Curri noi abbiamo visto il piccolo Kay. Una gallina bianca portava la sua slitta, lui era seduto nella carrozza della regina della neve, che passava bassa sul bosco quando noi eravamo nel nido, faceva tanto vento che tutti i piccoli morirono, tranne noi due. Curr! Curri".
"Cosa dite lassù?" gridò Gerda "dove si è diretta la regina della neve? Sapete qualcosa?"
"È sicuramente andata in Lapponia, perché là c'è sempre neve e ghiaccio. Prova a chiedere alla renna, che è qui legata alla corda."
"C'è ghiaccio e neve, là si sta molto bene!" rispose la renna. "Là si salta liberamente nelle grandi vallate che brillano! Là si trova la tenda estiva della regina della neve, ma il suo castello si trova vicino al Polo Nord, su di un'isola che si chiama Spitzberg!"
"Oh Kay, piccolo Kay!" sospirò Gerda.
"Stai un po' ferma!" disse la figlia del brigante "altrimenti ti caccio il coltello nello stomaco!"
Al mattino Gerda raccontò tutto quello che i colombi selvatici le avevano detto, e la figlia del brigante diventò seria, ma piegò la testa dicendo: "È lo stesso, è lo stesso! Tu sai dove si trova la Lapponia?" chiese alla renna.
"Chi dovrebbe saperlo meglio di me?" rispose l'animale, e i suoi occhi brillavano di gioia "là sono nata e cresciuta, là ho saltato sui campi di neve!"
"Ascolta!" disse la figlia del brigante a Gerda. "Vedi, tutti i nostri uomini sono andati via, ma la mamma è ancora qui, e qui resta; ma quando comincia il giorno si mette a bere da quel grosso bottiglione e poi fa un pisolino; a quel punto farò qualcosa per te!" Intanto saltò giù dal letto, si precipitò al collo della madre, le tirò i baffi e disse: "Mio caro caprone, buon giorno!". E la madre le pizzicò il naso finché non divenne rosso e blu, ma erano tutte manifestazioni di affetto.
Quando la madre, bevuta la sua bottiglia, si mise a riposare, la figlia del brigante andò dalla renna e disse: "Mi piacerebbe tanto continuare a farti il solletico molte altre volte con il mio coltello affilato, perché sei così divertente, ma non importa, scioglierò la corda e ti aiuterò a fuggire in modo che tu possa tornare in Lapponia; ma tu dovrai correre più forte che potrai, e portare questa fanciulla al castello della regina della neve dove si trova il suo compagno di giochi. Hai sentito quello che lei ha raccontato, perché ha parlato a voce alta, e tu ascolti sempre!".
La renna saltò di gioia. La figlia del brigante aiutò la piccola Gerda a salire in groppa, fu attenta a legarla ben stretta e le diede persino un cuscino su cui sedere. "Eccoti i tuoi stivaletti di pelo" esclamò "perché là farà freddo, ma il manicotto lo tengo io perché è troppo grazioso! Comunque anche tu non devi gelare, eccoti i guantoni di mia madre, ti arriveranno certo fino al gomito, infilali. Adesso hai le mani proprio come quelle della mia brutta mamma!"
Gerda pianse di gioia.
"Non mi piace che tu pianga!" disse la figlia del brigante. "Adesso devi apparire contenta! Eccoti due pani e un prosciutto, così non avrai fame." Li sistemò sul dorso della renna, aprì la porta, rinchiuse tutti i cani e tagliò la corda col coltello, dicendo alla renna: "Corri, su! Ma stai bene attenta alla bambina".
Gerda tese le mani con i guantoni verso la figlia del brigante e salutò e la renna partì passando sopra cespugli e sterpi, attraverso il grande bosco, oltre steppe e paludi, più in fretta che potè. I lupi ululavano e le cornacchie gridavano. "Fut fut!" si sentì un crepitio nel cielo, che si illuminò tutto di rosso.
"Ecco la mia cara aurora boreale!" disse la renna "guarda come brilla!" e corse ancora più in fretta, giorno e notte; i pani vennero mangiati, e anche il prosciutto, ma intanto erano giunte in Lapponia.
Sesta storia. La donna di Lapponia e la donna di Finlandia
Si fermarono vicino a una casetta, misera misera; il tetto scendeva fino a terra e la porta era così bassa che la famiglia per entrare doveva strisciare a terra. Non c'era nessuno in casa eccetto una vecchia donna della Lapponia, che stava friggendo del pesce su una lampada a olio di balena, la renna raccontò tutta la storia di Gerda, ma prima la sua, perché pensava che fosse importante, e Gerda era così infreddolita che non riusciva a parlare.
"Ah, poveretti!" disse la donna della Lapponia "allora dovete viaggiare ancora a lungo! Dovete percorrere più di cento miglia fino in Finlandia, perché la regina della neve si trova in vacanza là; e ogni notte accende grandi fuochi azzurri. Scriverò un messaggio su un baccalà secco, dato che non ho carta, e voi dovrete portarlo alla donna di Finlandia, che troverete lassù, così lei potrà darvi informazioni migliori."
Così, quando Gerda si fu scaldata e ebbe mangiato e bevuto la donna di Lapponia scrisse due righe su un baccalà secco, disse a Gerda di non perderlo, legò di nuovo la fanciulla alla renna e questa partì. "Fut! Fut! Fut!" si sentiva nell'aria, e per tutta la notte brillò la splendida aurora boreale, alla fine giunsero in Finlandia e bussarono al camino della donna di Finlandia, dato che non c'era neppure una porta.
Là dentro faceva talmente caldo, che la donna di Finlandia andava in giro quasi nuda; era piccolina e molto sporca; tolse subito i vestiti alla piccola Gerda, le tolse i guanti e gli stivali perché altrimenti avrebbe sofferto troppo caldo, poi mise sulla testa della renna un pezzo di ghiaccio e finalmente lesse quello che c'era scritto sul baccalà secco; lo lesse tre volte in modo da saperlo a memoria, poi gettò il pesce nella pentola del cibo, perché si poteva mangiare e lei non sprecava mai nulla.
Infine la renna raccontò prima la sua storia e poi quella della piccola Gerda, e la donna di Finlandia strizzò gli occhi senza dire nulla.
"Tu sei così intelligente" disse la renna. "So che sei in grado di legare tutti i venti del mondo con un filo da cucire; quando il navigatore scioglie un nodo, riceve un buon vento, se ne scioglie un altro, allora il vento si fa più forte; se poi scioglie anche il terzo e il quarto, allora c'è tempesta e i boschi vengono sradicati. Non vuoi dare a questa bambina una bevanda in modo che abbia la forza di dodici uomini e possa vincere la regina della neve?"
"La forza di dodici uomini" disse la donna di Finlandia "a cosa servirebbe?" Poi andò a un ripiano e prese una grande pelle arrotolata e la srotolò: c'erano strane lettere sopra, e la donna di Finlandia lesse finché il sudore non le colò dalla fronte.
Ma la renna chiese di nuovo qualcosa per la piccola Gerda e Gerda stessa volse verso la donna di Finlandia uno sguardo così implorante, pieno di lacrime, e questa ricominciò di nuovo a strizzare gli occhi, poi portò la renna in un angolo dove le sussurrò qualcosa mentre le metteva del ghiaccio fresco sulla testa:
"Il piccolo Kay è veramente presso la regina della neve e trova tutto di suo piacimento e crede che quella sia la parte più bella del mondo, ma tutto questo è accaduto perché gli sono caduti una scheggia di vetro nel cuore e un granellino di vetro in un occhio, prima questi devono essere estratti, altrimenti non diventerà mai un uomo e la regina della neve manterrà il potere su di lui."
"Ma tu non puoi dare qualcosa alla piccola Gerda, in modo che lei possa avere potere su tutto?"
"Io non posso darle una forza più grande di quella che già ha! Non vedi quanto è grande? Non vedi come gli uomini e gli animali la servono, e quanto ha camminato nel mondo con le sue sole gambe? Non deve avere da noi il potere: il potere si trova nel suo cuore perché è una fanciulla dolce e innocente Se lei stessa non riesce a arrivare dalla regina della neve e a togliere il vetro dal piccolo Kay, noi non possiamo aiutarla! A due miglia da qui comincia il giardino della regina della neve, tu devi portare fino a lì la fanciulla, e metterla vicino a un grande cespuglio di bacche rosse che si trova tra la neve; ma non star lì a chiacchierare a lungo e affrettati a tornare indietro!" e così dicendo mise la piccola Gerda sulla renna, che cominciò a correre più forte che potè.
"Oh non ho preso gli stivali! e nemmeno i guanti!" gridò la piccola Gerda; lo notava solo adesso per il freddo pungente, ma la renna non osava fermarsi e corse finché non giunse al grande cespuglio con le bacche rosse; lì fece scendere Gerda, la baciò sulla bocca, e grandi lacrime lucenti scesero sulle guance dell'animale, poi corse via più in fretta che potè. La povera Gerda si trovò lì senza scarpe e senza guanti in mezzo alla terribile e fredda Finlandia.
Corse avanti più in fretta che potè, poi giunse un intero reggimento di fiocchi di neve, ma questi non cadevano dal cielo, che era limpido e brillava per l'aurora boreale; i fiocchi di neve correvano proprio lungo la terra e più si avvicinavano, più diventavano grandi; Gerda si ricordava bene quanto grossi e meravigliosi le erano sembrati quella volta che li aveva visti attraverso la lente d'ingrandimento, ma qui erano grandi e terribili in un altro modo, erano vivi, erano l'avanguardia della regina della neve e avevano le forme più strane; alcuni sembravano orribili e grossi porcospini, altri apparivano come serpenti raggomitolati con la testa ritta, altri ancora come piccoli grassi orsi dal pelo irto, ma tutti erano di un bianco splendente, tutti erano fiocchi di neve vivi.
Allora la piccola Gerda recitò il Padre Nostro, il freddo era così forte che riusciva a vedere il suo respiro in una nuvoletta di fumo che usciva dalla bocca; poi si fece sempre più denso e si trasformò in piccoli angeli trasparenti che crescevano sempre di più toccando la terra. Tutti avevano l'elmo in capo e una spada e lo scudo ai fianchi; divennero sempre più numerosi, e quando Gerda ebbe finito il Padre Nostro, ce n'era una intera legione intorno a lei. Colpirono con le spade gli orribili fiocchi di neve fino a romperli in mille pezzi, così la piccola Gerda potè avanzare sicura e piena di coraggio. Gli angeli le toccavano i piedi e le mani in modo che lei sentisse meno il freddo, e arrivò così al castello della regina della neve.
Ma adesso dobbiamo prima vedere come stava Kay. Kay non pensava affatto alla piccola Gerda e ancora meno pensava che lei fosse alle porte del castello.
Settima storia. Che cosa era successo nel castello della regina della neve e che cosa accadde in seguito
Le pareti del castello erano formate dalla neve che cadeva, le finestre e le porte dai venti che soffiavano; c'erano più di cento saloni, secondo la forma che prendeva la neve caduta; il più grande si allungava per molte miglia, tutti erano illuminati dall'aurora boreale e erano grandi, vuoti, gelati, luminosi. L'allegria non arrivava mai, mai c'era stato un ballo di orsacchiotti dove la tempesta potesse intonare la musica, e gli orsi camminare sulle zampe posteriori e comportarsi in modo distinto, mai c'erano stati giullari che facessero ballare gli orsi polari; mai una riunione per bere il caffè con le bianche signore volpi, tutto era vuoto, enorme e gelato nelle sale della regina della neve. Le aurore boreali brillavano con tanta regolarità che si poteva addirittura calcolare quando brillavano della luce più potente e quando della luce più debole. Proprio in mezzo a una sala di neve vuota e enorme si trovava un lago ghiacciato; era infranto in mille pezzi, ma ogni pezzo era identico all'altro, e era una vera opera d'arte. Proprio lì sopra stava seduta la regina della neve quando era a casa, così diceva che sedeva sullo specchio dell'intelligenza, e che quello era l'unico e il miglior posto del mondo.
Il piccolo Kay era viola per il freddo, anzi quasi nero, ma non se ne accorgeva, perché lei con un bacio gli aveva tolto il brivido del freddo, e il suo cuore era come un grumo di ghiaccio. Stava trafficando intorno a alcuni pezzi di ghiaccio lisci e appuntiti, che deponeva in tutti i modi possibili, perché ne voleva ricavare qualcosa, un po' come quando noi abbiamo dei pezzettini di legno e li mettiamo insieme per formare delle figure: quello che si chiama il gioco cinese. Anche Kay faceva varie figure, le più perfette, era il gioco di ghiaccio dell'intelligenza; ai suoi occhi le figure erano meravigliose e molto importanti, e questo per merito del granellino di vetro che aveva nell'occhio! Poi realizzava delle figure che erano delle parole scritte, ma non riusciva mai a comporre la parola che lui voleva, "eternità," e la regina della neve gli aveva detto: "Se riuscirai a comporre quella parola, diventerai signore di te stesso, e io ti regalerò il mondo intero e un paio di pattini nuovi". Ma lui non riusciva.
"Ora devo andare nei paesi caldi" disse la regina della neve "devo andare a guardare nelle mie pentole nere." Erano le montagne che gettano il fuoco, l'Etna e il Vesuvio, come si chiamano. "Devo imbiancarle un po'! È ora ormai. E la neve sta molto bene sui limoni e sulle viti!" Così la regina della neve volò via.
Kay rimase tutto solo in quelle grandissime e gelide sale vuote a guardare i suoi pezzi di ghiaccio continuando a pensare finché la testa quasi non gli scoppiava; restava rigido e immobile, tanto da sembrare morto assiderato.
Fu in quel momento che la piccola Gerda entrò nel castello attraverso il grande portone, fatto di vento tagliente, ma lei recitò la preghiera della sera e il vento si calmò, come volesse dormire, così lei entrò in quelle sale gelide, vuote e enormi. Allora vide Kay, lo riconobbe, e gli saltò al collo, lo abbracciò stretto e gridò: "Kay! Dolce piccolo Kay! Finalmente ti ho trovato!".
Ma lui rimase immobile, rigido e gelido; allora la piccola Gerda pianse calde lacrime, che gli caddero sul petto, gli entrarono nel cuore, sciolsero il grumo di ghiaccio e corrosero il pezzettino di specchio che si trovava dentro; Kay la guardò e lei cantò l'inno:
Le rose crescono nelle valli, laggiù parleremo con Gesù Bambino!
Allora Kay scoppiò in lacrime; pianse tanto che il granellino di specchio gli uscì dagli occhi, lui riconobbe la fanciulla e esultò di gioia: "Gerda, dolce piccola Gerda! Dove sei stata tutto questo tempo? E dove sono stato io?" e si guardò intorno. "Che freddo fa qui! Com'è tutto vuoto e enorme!" E abbracciò forte Gerda, e lei rise e pianse di gioia, era così bello che persino i pezzi di ghiaccio si misero a danzare di gioia intorno a loro, e quando furono stanchi si fermarono, formando proprio quelle lettere che la regina della neve aveva detto a Kay di comporre, per poter diventare signore di se stesso e ottenere da lei tutto il mondo e un paio di pattini nuovi.
Gerda gli baciò le guance, e queste ripresero colore, poi gli baciò gli occhi, che luccicarono come quelli di lei, poi gli baciò i piedi e le mani, e lui divenne vispo e sano. La regina della neve poteva pure tornare a casa: la lettera di addio stava scritta là con i pezzi di ghiaccio luccicanti.
Allora si presero per mano e uscirono dal grande castello; parlarono della nonna e delle rose sul tetto; e dove loro camminavano i venti si placavano e il sole splendeva; quando raggiunsero il cespuglio con le bacche rosse trovarono la renna che li aspettava; c'era un'altra giovane renna con lei, con le mammelle gonfie: diede ai piccoli il suo latte e li baciò sulla bocca. Poi le due renne portarono Kay e Gerda prima dalla donna di Finlandia, dove si scaldarono nella calda stanza e dove si informarono sul viaggio di ritorno; quindi dalla donna della Lapponia, che aveva cucito per loro dei nuovi abitini e preparato una slitta.
Allora le due renne si misero a saltare al loro fianco e li accompagnarono fino ai confini del paese, dove cominciava a spuntare la prima erbetta, e là i bambini salutarono le renne e la donna della Lapponia. "Addio!" dissero tutti. I primi uccellini cominciarono a cinguettare, il bosco era pieno di verdi gemme, e da li uscì cavalcando su un magnifico cavallo che Gerda conosceva (era stato attaccato alla carrozza d'oro) una fanciulla con un bel cappello rosso in testa e in mano le pistole; era la figlia del brigante, che, stanca di stare a casa, voleva andare prima verso Nord e poi, se non si fosse divertita, da qualche altra parte. Subito riconobbe Gerda e Gerda riconobbe lei; fu veramente una gioia!
"Sei proprio un bel tipo a andare in giro per il mondo!" disse al piccolo Kay. "Mi piacerebbe sapere se meriti che la gente vada fino alla fine del mondo per te!"
Ma Gerda le accarezzò la guancia e le chiese del principe e della principessa.
"Sono partiti per una terra straniera" rispose la figlia del brigante.
"E la cornacchia?" chiese la piccola Gerda.
"Ah, la cornacchia è morta!" rispose quella. "La cornacchia domestica è diventata vedova e se ne va in giro con un pezzetto di lana nero intorno a una zampa; si lamenta in modo pietoso, ma sono tutte storie! Adesso raccontami tu piuttosto come ti è andata e come hai fatto a trovarlo."
Gerda e Kay raccontarono insieme.
"Oh, accidenti!" esclamò la figlia del brigante, strinse loro la mano e promise che se un giorno fosse passata per il loro paese sarebbe andata a trovarli; poi se ne cavalcò via nel vasto mondo, mentre Kay e Gerda s'incamminarono mano nella mano, e dove camminavano spuntava la bella primavera con i fiori e il verde; le campane della chiesa suonarono, e loro riconobbero le alte torri e la grande città. Era quella in cui abitavano: vi entrarono e camminarono fino alla porta della nonna, su per le scale, nella stanza dove tutto si trovava nello stesso modo di prima, e l'orologio diceva: "Tic! Tac!" e le lancette giravano; ma quando entrarono dalla porta si accorsero che erano diventati adulti. Le rose che si trovavano sulla grondaia e che erano fiorite entravano dalle finestre aperte e c'erano ancora i loro due seggiolini da bambini; Kay e Gerda sedettero ognuno sul proprio e si tennero per mano; avevano dimenticato, come fosse stato un brutto sogno, quel freddo vuoto splendore della regina della neve. La nonna si trovava nella chiara luce di Dio e leggeva a voce alta dal Vangelo: "Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli".
Kay e Gerda si guardarono negli occhi, e improvvisamente capirono il vecchio inno:
Le rose crescono nelle valli, laggiù parleremo con Gesù Bambino!
Stavano lì seduti, entrambi adulti, eppure bambini, bambini nel cuore, e era estate, la calda estate benedetta.
IN SIEBEN GESCHICHTEN
Erste Geschichte,
welche von dem Spiegel und den Scherben handelt.
Seht, nun fangen wir an. Wenn wir am Ende der Geschichte sind, wissen wir mehr als jetzt, denn es war ein böser Kobold! Es war einer der allerärgsten, es war der Teufel! Eines Tages war er recht bei Laune, denn er hatte einen Spiegel gemacht, welcher die Eigenschaft besaß, daß alles Gute und Schöne, was sich darin spiegelte, fast zu Nichts zusammenschwand, aber das, was nichts taugte und sich schlecht ausnahm, hervortrat und noch ärger wurde. Die herrlichsten Landschaften sahen wie gekochter Spinat darin aus, und die besten Menschen wurden widerlich und standen auf dem Kopfe ohne Rumpf, die Gesichter wurden so verdreht, daß sie nicht zu erkennen waren, und hatte man einen Sonnenfleck, so konnte man überzeugt sein, daß er sich über Nase und Mund verbreitete. Das sei äußerst belustigend, sagte der Teufel. Fuhr nun ein guter frommer Gedanke durch einen Menschen, dann zeigte sich ein Grinsen im Spiegel, so daß der Teufel über seine künstliche Erfindung lachen mußte. Alle, welche die Koboldschule besuchten, denn er hielt Koboldschule, erzählten überall, daß ein Wunder geschehen sei; nun könne man erst sehen, meinten sie, wie die Welt und die Menschen wirklich aussähen. Sie liefen mit dem Spiegel umher, und zuletzt gab es kein Land oder keinen Menschen mehr, welcher nicht verdreht darin erschienen wäre. Nun wollten sie auch zum Himmel auffliegen, um sich über die Engel und den lieben Gott lustig zu machen. Je höher sie mit dem Spiegel flogen, um so mehr grinste er; sie konnten ihn kaum festhalten. Sie flogen höher und höher, Gott und den Engeln näher; da erzitterte der Spiegel so fürchterlich in seinem Grinsen, daß er ihren Händen entfiel und zur Erde stürzte, wo er in hundert Millionen, Billionen und noch mehr Stücke zersprang. Und nun grade verursachte er weit größeres Unglück als zuvor; denn einige Stücke waren kaum so groß wie ein Sandkorn, und diese flogen ringsumher in der weiten Welt, und wo jemand sie in das Auge bekam, da blieben sie sitzen, und da sahen die Menschen alles verkehrt oder hatten nur Augen für das Verkehrte bei einer Sache; denn jede kleine Spiegelscherbe hatte dieselben Kräfte behalten, welche der ganze Spiegel besaß. Einige Menschen bekamen sogar eine Spiegelscherbe in das Herz,m und dann war es ganz greulich; das Herz wurde einem Klumpen Eis gleich. Einige Spiegelscherben waren so groß, daß sie zu Fensterscheiben verbraucht wurden; aber durch diese Scheiben taugte es nicht, seine Freunde zu betrachten. Andere Stücke kamen in Brillen, und dann ging es schlecht, wenn die Leute diese Brillen aufsetzten, um recht zu sehen und gerecht zu sein; der Böse lachte, daß ihm der Bauch wackelte, und das kitzelte ihn so angenehm. Aber draußen flogen noch kleine Glasscherben in der Luft umher. Nun werden wir's hören!
Zweite Geschichte
Ein kleiner Knabe und ein kleines Mädchen
Drinnen in der großen Stadt, wo so viele Menschen und Häuser sind, ja nicht einmal Platz genug ist, daß alle Leute einen kleinen Garten besitzen können, und wo sich deshalb die meisten mit Blumen in Blumentöpfen begnügen müssen, waren zwei arme Kinder, die einen etwas größeren Garten als einen Blumentopf besaßen. Sie waren nicht Bruder und Schwester, aber sie waren sich ebenso gut, als wenn sie es gewesen wären. Die Eltern wohnten einander gerade gegenüber in zwei Dachkammern, wo das Dach des einen Nachbarhauses gegen das andere stieß und die Wasserrinne zwischen den Dächern entlang lief; dort war in jedem Haus ein kleines Fenster; man brauchte nur über die Rinne zu schreiten, so konnte man von dem einen Fenster zum anderen gelangen.
Die Eltern hatten draußen beiderseits einen großen hölzernen Kasten, und darin wuchsen Küchenkräuter, die sie brauchten, und ein kleiner Rosenstock. Es stand einer in jedem Kasten; die wuchsen gar herrlich! Nun fiel es den Eltern ein, die Kasten quer über die Rinne zu stellen, so daß sie fast von dem einen Fenster zum andern reichten und zwei Blumenwällen ganz ähnlich sahen. Erbsenranken hingen über die Kasten herunter, und die Rosenstöcke schossen lange Zweige, die sich um die Fenster rankten und einander entgegen bogen; es sah fast einer Ehrenpforte von Blättern und Blumen gleich. Da die Kasten sehr hoch waren und die Kinder wußten,daß sie nicht hinaufkriechen durften, so erhielten sie oft die Erlaubnis, zueinander hinauszusteigen und auf ihren kleinen Schemeln unter den Rosen zu sitzen, da spielten sie dann so prächtig.
Im Winter hatte dieses Vergnügen ein Ende. Die Fenster waren oft ganz zugefroren; aber dann wärmten sie Kupferschillinge auf dem Ofen und legten den warmen Schilling gegen die gefrorene Scheibe; dadurch entstand ein schönes Guckloch, so rund, so rund; dahinter blitzte ein lieblich mildes Auge, eines vor jedem Fenster; das war der kleine Knabe und das kleine Mädchen. Er hieß Kay, und sie hieß Gerda. Im Sommer konnten sie mit einem Sprunge zueinander gelangen; im Winter mußten sie erst die vielen Treppen herunter und die Treppen hinauf; draußen stob der Schnee.
"Das sind die weißen Bienen, die schwärmen," sagte die Großmutter.
"Haben sie auch eine Bienenkönigin?" fragte der kleine Knabe, denn er wußte, daß unter den wirklichen Bienen eine solche ist.
"Die haben sie!" sagte die Großmutter. "Sie fliegt dort, wo sie am dichtesten schwärmen! Es ist die größte von allen, und nie bleibt sie ruhig auf Erden, sie fliegt wieder in die schwarze Wolke hinauf. Manche Mitternacht fliegt sie durch die Straßen der Stadt und blickt zu den Fenstern hinein, und dann frieren die gar sonderbar und sehen wie Blumen aus."
"Ja, das habe ich gesehen!" sagten beide Kinder und wußten nun, daß es wahr sei. "Kann die Schneekönigin hier hereinkommen?" fragte das kleine Mädchen. "Laß sie nur kommen!" sagte der Knabe, "dann setze ich sie auf den warmen Ofen und sie schmilzt." Aber die Großmutter glättete sein Haar und erzählte andere Geschichten.
Am Abend, als der kleine Kay zu Hause und halb entkleidet war, kletterte er auf den Stuhl am Fenster und guckte aus dem kleinen Loch. Ein paar Schneeflocken fielen draußen, und eine derselben, die allergrößte, blieb auf dem Rand des einen Blumenkastens liegen; die Schneeflocke wuchs mehr und mehr und wurde zuletzt ein ganzes Frauenzimmer, in den feinsten weißen Flor gekleidet, der wie aus Millionen sternartiger Flocken zusammengesetzt war. Sie war so schön und fein, aber von Eis, von blendendem, blinkendem Eise. Doch war sie lebendig; die Augen blitzten wie zwei klare Sterne; aber es war keine Ruhe oder Rast in ihnen. Sie nickte dem Fenster zu und winkte mit der Hand. Der kleine Knabe erschrak und sprang vom Stuhl herunter; da war es, als ob draußen vor dem Fenster ein großer Vogel vorbeiflöge.
Am nächsten Tag wurde es klarer Frost – und dann kam das Frühjahr; die Sonne schien, das Grün keimte hervor, die Schwalben bauten Nester, die Fenster wurden geöffnet, und die kleinen Kinder saßen wieder in ihrem kleinen Garten hoch oben in der Dachrinne über allen Stockwerken.
Die Rosen blühten diesen Sommer so prachtvoll; das kleine Mädchen hatte einen Psalm gelernt, in welchem auch von Rosen die Rede war; und bei den Rosen dachte sie an ihre eigenen; und sie sang ihn dem kleinen Knaben vor, und er sang mit:
Die Rosen, sie verblüh'n und verwehen,
Wir werden das Christkindlein sehen!
Und die Kleinen hielten einander bei den Händen, küßten die Rosen, blickten in Gottes hellen Sonnenschein hinein und sprachen zu demselben, als ob das Jesuskind da sei. Was waren das für herrliche Sommertage; wie schön war es draußen bei den frischen Rosenstöcken, welche unermüdlich zu blühen schienen!
Kay und Gerda saßen und blickten in das Bilderbuch mit Tieren und Vögeln, da war es – die Uhr schlug gerade fünf auf dem großen Kirchturm –, daß Kay sagte: "Au! Es stach mir in das Herz, und mir flog etwas in das Auge!"
Das kleine Mädchen fiel ihm um den Hals; er blinzelte mit den Augen; nein, es war gar nichts zu sehen.
"Ich glaube, es ist weg!" sagte er; aber weg war es nicht. Es war gerade so einer von jeden Glassplittern, welche vom Spiegel gesprungen waren, dem Zauberspiegel, wir entsinnen uns seiner wohl, dem häßlichen Glase, welches alles Große und Gute, das sich darin abspiegelte, klein und häßlich machte; aber das Böse und Schlechte trat ordentlich hervor, und jeder Fehler an einer Sache war gleich zu bemerken. Der arme Kay hatte auch ein Splitterchen gerade in das Herz hinein bekommen. Das wird nun bald wie ein Eisklumpen werden; nun tat es nicht mehr weh, aber das Splitterchen war da.
"Weshalb weinst du?" fragte er. "So siehst du häßlich aus! Mir fehlt ja nichts!" – "Pfui" rief er auf einmal: "Die Rose dort hat einen Wurmstich! Und sieh, diese da ist ja ganz schief! Im Grunde sind es häßliche Rosen! Sie gleichen dem Kasten, in welchem sie stehen!" Und dann stieß er mit dem Fuß gegen den Kasten und riß die beiden Rosen ab.
"Kay, was machst du?" rief das kleine Mädchen. Und als er ihren Schreck gewahr wurde, riß er noch eine Rose ab und sprang dann in sein Fenster hinein und von der kleinen lieblichen Gerda fort.
Als sie später mit dem Bilderbuch kam, sagte er, daß das für Wickelkinder passe; und erzählte die Großmutter Geschichten, so kam er immer mit einem "aber" – konnte er dazu gelangen, dann ging er hinter ihr her, setzte eine Brille auf und sprach ebenso wie sie; das machte er ganz treffend, und die Leute lachten über ihn. Bald konnte er Sprache und Gang von allen Menschen in der ganzen Straße nachahmen. Alles, was an ihnen eigentümlich und unschön war, das wußte Kay nachzumachen; und die Leute sagten: "Das ist sicher ein ausgezeichneter Kopf, den der Knabe hat!" Aber es war das Glas, welches ihm in dem Herzen saß; daher kam es auch, daß er selbst die kleine Gerda neckte, die ihm von ganzem Herzen gut war.
Seine Spiele wurden nun ganz anders als früher; sie waren so verständig. An einem Wintertag, als es schneite, kam er mit einem großen Brennglas, hielt seinen blauen Rockzipfel hin und ließ die Schneeflocken darauf fallen. "Sieh nun in das Glas, Gerda!" sagte er; und jede Schneeflocke wurde viel größer und sah aus wie eine prächtige Blume oder ein zehneckiger Stern; es war schön anzusehen. "Siehst du, wie künstlich!" sagte Kay. "Das ist weit interessanter als die wirklichen Blumen! Und es ist kein einziger Fehler daran; sie sind ganz akkurat, wenn sie nur nicht schmölzen!"
Bald darauf kam Kay mit großen Handschuhen und seinem Schlitten auf dem Rücken; er rief Gerda in die Ohren: "Ich habe Erlaubnis erhalten, auf dem großen Platz zu fahren, wo die anderen Knaben spielen!," und weg war er.
Dort auf dem Platz banden die kecksten Knaben oft ihre Schlitten an die Wagen der Landleute fest, und dann fuhren sie ein gutes Stück Wegs mit. Das ging recht schön. Als sie im besten Spielen waren, kam ein großer Schlitten; der war ganz weiß angestrichen, und darin saß jemand, in einen rauhen weißen Pelz gehüllt und mit einer rauhen weißen Mütze; der Schlitten fuhr zweimal um den Platz herum, und Kay band seinen kleinen Schlitten schnell daran fest, und nun fuhr er mit. Es ging rascher und rascher, gerade hinein in die nächste Straße; der, welcher fuhr, drehte sich um, nickte dem Kay freundlich zu; es war, als ob sie einander kannten. Jedesmal, wenn Kay seinen kleinen Schlitten ablösen wollte, nickte der Fahrende wieder, und dann blieb Kay sitzen; sie fuhren zum Stadttor hinaus. Da begann der Schnee so hernieder zu fallen, daß der kleine Knabe keine Hand vor sich erblicken konnte; aber er fuhr weiter. Nun ließ er schnell die Schnur fahren, um von dem großen Schlitten loszukommen, aber das half nichts, sein kleines Fuhrwerk hing fest, und es ging mit Windeseile vorwärts. Da rief er ganz laut, aber niemand hörte ihn, und der Schnee stob, und der Schlitten flog von dannen; mitunter gab es einen Sprung; es war, als führe er über Gräben und Hecken. Der Knabe war ganz erschrocken; er wollte sein Vaterunser beten, aber er konnte sich nur des großen Einmaleins entsinnen.
Die Schneeflocken wurden größer und größer; zuletzt sahen sie aus wie große weiße Hühner. Auf einmal sprangen sie zur Seite; der große Schlitten hielt, und die Person, die in ihm fuhr, erhob sich; der Pelz und die Mütze waren ganz und gar von Schnee; es war eine Dame, hoch und schlank, glänzend weiß; es war die Schneekönigin.
"Wir sind gut gefahren!" sagte sie. "Aber wer wird frieren! Krieche in meinen Bärenpelz!" Und sie setzte ihn neben sich in den Schlitten und schlug den Pelz um ihn; es war, als versinke er in einem Schneetreiben.
"Friert dich noch?" fragte sie, und dann küßte sie ihn auf die Stirn. Oh! das war kälter als Eis; das ging ihm gerade hinein bis ins Herz, welches ja doch zur Hälfte ein Eisklumpen war. Es war, als sollte er sterben; aber nur einen Augenblick, dann tat es ihm recht wohl; er spürte nichts mehr von der Kälte ringsumher.
"Meinen Schlitten! Vergiß nicht meinen Schlitten!" Daran dachte er zuerst, und der wurde an eins der weißen Hühnchen festgebunden, und dieses flog hinterher mit dem Schlitten auf dem Rücken. Die Schneekönigin küßte Kay nochmals, und da hatte er die kleine Gerda, die Großmutter und alle daheim vergessen.
"Nun bekommst du keine Küsse mehr!" sagte sie; "denn sonst küßte ich dich tot!"
Kay sah sie an; sie war so schön; ein klügeres, lieblicheres Antlitz konnte er sich nicht denken. Nun erschien sie ihm nicht von Eis wie damals, als sie draußen vor dem Fenster saß und ihm winkte; in seinen Augen war sie vollkommen; er fühlte gar keine Furcht. Er erzählte ihr, daß er kopfrechnen könne, und zwar mit Brüchen; er wisse des Landes Quadratmeilen und die Einwohnerzahl; sie lächelte immer. Da kam es ihm vor, als sei es doch nicht genug, was er wisse; und er blickte hinauf in den großen Luftraum; und sie flog mit ihm, flog hoch hinauf auf die schwarze Wolke, und der Sturm sauste und brauste; es war, als sänge er alte Lieder. Sie flogen über Wälder und Seen, über Meere und Länder; unter ihnen sauste der kalte Wind, die Wölfe heulten, der Schnee knisterte; über demselben flogen die schwarzen, schreienden Krähen dahin; aber hoch oben schien der Mond so groß und klar, und dort betrachtete Kay die lange, lange Winternacht. Am Tage schlief er zu den Füßen der Schneekönigin.
Dritte Geschichte
Der Blumengarten bei der Frau, welche zaubern konnte<\b>
Aber wie erging es der kleinen Gerda, als Kay nicht zurückkehrte? Wo war er nur geblieben? Niemand wußte es, niemand konnte Bescheid geben. Die Knaben erzählten nur, daß sie ihn seinen Schlitten an einen mächtig großen hätten binden sehen, der in die Straße hinein und zu dem Stadttor hinausgefahren sei. Niemand wußte, wo er war, und viele Tränen flossen. Die kleine Gerda weinte so viel und so lange, denn sagte sie, er sei tot, er sei im Fluß ertrunken, der nahe bei der Schule vorbeifloß; oh, das waren recht lange, finstere Wintertage!
Nun kam der Frühling mit wärmerem Sonnenschein.
"Kay ist tot und fort!" sagte die kleine Gerda.
"Das glaube ich nicht!" antwortete der Sonnenschein.
"Er ist tot und fort!" sagte sie zu den Schwalben.
"Das glauben wir nicht!" erwiderten diese, und am Ende glaubte die kleine Gerda es auch nicht.
"Ich will meine neuen roten Schuhe anziehen," sagte sie eines Morgens, "die, welche Kay nie gesehen hat, und dann will ich zum Fluß hinuntergehen und den nach ihm fragen!"
Und es war noch ganz früh; sie küßte die alte Großmutter, die noch schlief, zog die roten Schuhe an und ging ganz alleine aus dem Stadttor zu dem Fluß. "Ist es war, das du mir meinen kleinen Spielkameraden genommen hast? Ich will dir meine roten Schuhe schenken, wenn du ihn mir wiedergeben willst!"
Und es war ihr, als nickten die Wellen so sonderbar. Da nahm sie ihre roten Schuhe, die sie am liebsten hatte, und warf sie alle beide in den Fluß hinein; aber sie fielen dicht an das Ufer, und die kleinen Wellen trugen sie ihr wieder an das Land. Es war gerade, als wollte der Fluß nicht das liebste, was sie besaß, weil er den kleinen Kay ja nicht hatte. Aber sie glaubte nun, daß sie die Schuhe nicht weit genug hinausgeworfen habe; und so kroch sie in ein Boot, welches im Schilf lag. Sie ging ganz an das äußerste Ende desselben und warf die Schuhe von da in das Wasser; aber das Boot war nicht festgebunden, und bei der Bewegung, welche sie verursachte, glitt es vom Land ab. Sie bemerkte es und beeilte sich, herauszukommen; doch ehe sie zurückkam, war das Boot über eine Elle vom Lande, und nun trieb es schneller von dannen. Da erschrak die kleine Gerda sehr und fing an zu weinen; allein niemand außer den Sperlingen hörte sie, und die konnten sie nicht an das Land tragen. Aber sie flogen längs dem Ufer und sangen, gleichsam um sie zu trösten: "Hier sind wir, hier sind wir!" Das Boot trieb mit dem Strom; die kleine Gerda saß ganz still, nur mit Strümpfen an den Füßen; ihre kleinen roten Schuhe trieben hinter ihr her; aber sie konnten das Boot nicht erreichen, das hatte stärkere Fahrt. Hübsch war es an beiden Ufern; schöne Blumen, alte Bäume und Hänge mit Schafen und Kühen; aber nicht ein Mensch war zu erblicken. "Vielleicht trägt mich der Fluß zu dem kleinen Kay," dachte Gerda, und da wurde sie heiterer, erhob sich und betrachtete viele Stunden die grünen, schönen Ufer. Dann gelangte sie zu einem großen Kirschgarten, in welchem ein kleines Haus mit sonderbaren roten und blauen Fenstern war; übrigens hatte es ein Strohdach, und im Garten standen zwei hölzerne Soldaten, die vor der Vorbeisegelnden das Gewehr schulterten.
Gerda rief nach ihnen; sie glaubte, daß sie lebendig seien; aber sie antworteten natürlich nicht. Sie kam ihnen ganz nahe, denn der Fluß trieb das Boot gerade auf das Land zu.
Gerda rief noch lauter, und da kam eine alte, alte Frau aus dem Hause, die sich auf einen Krückstock stützte; sie hatte einen großen Sonnenhut auf, und der war mit den schönsten Blumen bemalt.
"Du armes, kleines Kind!" sagte die alte Frau; "wie bist du doch auf den großen, reißenden Strom gekommen und weit in die Welt hinausgetrieben!" Und dann ging die alte Frau ganz in das Wasser hinein, erfaßte mit ihrem Krückstock das Boot, zog es an das Land und hob die kleine Gerda heraus.
Und Gerda war froh, wieder auf das Trockene zu gelangen, obgleich sie sich vor der fremden alten Frau ein wenig fürchtete.
"Komm doch und erzähle mir, wer du bist und wie du hierher kommst!" sagte sie.
Und Gerda erzählte ihr alles; und die Alte schüttelte den Kopf und sagte: "Hm! Hm!" und als ihr Gerda alles gesagt und gefragt hatte ob sie nicht den kleinen Kay gesehen habe, sagte die Frau, daß er nicht vorbeigekommen sei, aber er werde wohl noch kommen. Sie solle nur nicht betrübt sein, sondern ihre Kirschen kosten und ihre Blumen betrachten; die seien schöner als irgendein Bilderbuch; eine jede könne eine Geschichte erzählen, und die alte Frau schloß die Tür zu.
Die Fenster lagen sehr hoch, und die Scheiben waren rot, blau und gelb; das Tageslicht schien mit allen Farben gar sonderbar herein, aber auf dem Tisch standen die schönsten Kirschen, und Gerda aß davon, soviel sie wollte, denn das war ihr erlaubt. Während sie aß, kämmte die alte Frau ihr Haar mit einem goldenen Kamm, und das Haar ringelte sich und glänzte herrlich golden rings um das kleine freundliche Antlitz, welches so rund war und wie eine Rose aussah.
"Nach einem so lieben, kleinen Mädchen habe ich mich schon lange gesehnt," sagte die Alte. "Nun wirst du sehen, wie gut wir miteinander leben werden!" Und so wie sie der kleinen Gerda Haar kämmte, vergaß Gerda mehr und mehr ihren Spielgefährten Kay; denn die alte Frau konnte zaubern; aber eine böse Zauberin war sie nicht. Sie zauberte nur ein wenig zu ihrem Vergnügen und wollte gern die kleine Gerda behalten. Deshalb ging sie in den Garten, steckte ihren Krückstock gegen alle Rosensträucher aus, und wie schön sie auch blühten, so sanken sie doch alle in die schwarze Erde hinunter, und man konnte nicht sehen, wo sie gestanden hatten. Die Alte fürchtete, wenn Gerda die Rosen erblickte, möchte sie an ihre eigenen denken, sich dann des kleinen Kay erinnern und davonlaufen.
Nun führte sie Gerda hinaus in den Blumengarten. Was war da für ein Duft und eine Herrlichkeit! Alle nur denkbaren Blumen, und zwar für jede Jahreszeit, standen hier im prächtigsten Flor; kein Bilderbuch konnte bunter und schöner sein. Gerda sprang vor Freude hochauf und spielte, bis die Sonne hinter den hohen Kirschbäumen unterging, da bekam sie ein schönes Bett mit roten Seidenkissen, die waren mit bunten Veilchen gestopft; und sie schlief und träumte so herrlich wie nur eine Königin an ihrem Hochzeitstag.
Am nächsten Tag konnte sie wieder mit den Blumen im warmen Sonnenschein spielen, und so verflossen viele Tage. Gerda kannte jede Blume; aber wieviel derer auch waren, stets war es ihr doch, als ob eine fehle, allein welche, das wußte sie nicht. Da sitzt sie eines Tages und betrachtet der alten Frau Sonnenhut mit den gemalten Blumen, und gerade die schönste darunter war eine Rose. Die Alte hatte vergessen, diese vom Hut wegzunehmen, als sie die andern in die Erde senkte. Aber so ist es, wenn man die Gedanken nicht immer beisammen hat! "Was, sind hier keine Rosen?" sagte Gerda und sprang zwischen die Beete, suchte und suchte; ach, da war keine zu finden. Nun setzt sie sich hin und weinte, aber ihre Tränen fielen gerade auf eine Stelle, wo ein Rosenstrauch verschwunden war, und als die warmen Tränen die Erde bewässerten, schoß der Strauch auf einmal empor, so blühend, wie er versunken war und Gerde umarmte ihn, küßte die Rosen und gedachte der herrlichen Rosen daheim und mit ihnen auch des kleinen Kay.
"Oh, wie bin ich aufgehalten worden!" sagte das kleine Mädchen. "Ich wollte ja den kleinen Kay suchen! Wißt ihr nicht, wo er ist?" fragte sie die Rosen. "Glaubt ihr, daß er tot ist?"
"Tot ist er nicht," antworteten die Rosen. "Wir sind ja in der Erde gewesen; dort sind alle Toten, aber Kay war nicht da."
"Ich danke euch," sagte die kleine Gerda und ging zu den anderen Blumen hin, sah in deren Kelche hinein und fragte: "Wißt ihr nicht, wo der kleine Kay ist?"
Aber jede Blume stand in der Sonne und träumte ihr eigenes Märchen oder Geschichtchen; davon hörte Gerda so viele, viele; aber keine wußte etwas von Kay.
Und was sagte die Feuerlilie? "Hörst du die Trommel: bum! bum! Es sind nur zwei Töne; immer: bum! bum! Höre der Frauen Trauergesang, höre den Ruf der Priester. In ihrem langen roten Mantel steht das Hindu-Weib auf dem Scheiterhaufen; die Flammen lodern um sie und ihren toten Mann empor; aber das Hindu-Weib denkt an den Lebenden hier im Kreise, an ihn, dessen Auge heißer denn die Flammen brennen, an ihn, dessen Augenfeuer ihr Herz stärker berührt als die Flammen, welche bald ihren Körper zu Asche verbrennen. Kann die Flamme des Scheiterhaufens ersterben?" - "Das verstehe ich durchaus nicht," sagte die kleine Gerda. "Das ist mein Märchen!" sagte die Feuerlilie.
Was sagte die Winde? "Über den schmalen Feldweg hinaus hängt eine alte Ritterburg; das dichte Immergrün wächst um die alten roten Mauern empor, Blatt an Blatt um den Altan herum, und da steht ein schönes Mädchen, es beugt sich über das Geländer hinaus und sieht den Weg hinunter. Keine Rose hängt frischer an den Zweigen als dasselbe, keine Apfelblüte, wenn der Wind sie dem Baume entführt schwebt leichter dahin als dieses; wie rauscht das prächtige Seidengewand. 'Kommt er noch nicht?' " - "Ist es Kay, den du meinst?" fragte die kleine Gerda. "Ich spreche nur von meinem Märchen, meinem Traum," erwiderte die Winde.
Was sagte die kleine Schneeblume? "Zwischen den Bäumen hängt an Seilen das lange Brett; das ist eine Schaukel. Zwei niedliche kleine Mädchen – die Kleider sind weiß wie der Schnee, lange grüne Seidenbänder flattern von den Hüten – sitzen darauf und schaukeln sich; der Bruder, welcher größer ist als sie, steht in der Schaukel. Er hat den Arm um das Seil geschlungen, um sich zu halten, denn in der einen Hand hat er eine kleine Schale, in der andern eine Tonpfeife; er bläst Seifenblasen. Die Schaukel geht, und die Blasen steigen mit schönen, wechselnden Farben empor; die letzte hängt noch am Pfeifenstiel und biegt sich im Winde. Die Schaukel geht; der kleine schwarze Hund, leicht wie die Blasen, erhebt sich auf den Hinterfüßen und will mit in die Schaukel; sie fliegt; der Hund fällt, bellt und ist böse; er wird geneckt, die Blasen bersten. Ein schaukelndes Brett, ein zerspringendes Schaumbild ist mein Gesang!" - "Es ist möglich, daß es hübsch ist, was du da erzählst; aber du sagst es so traurig und erwähnst den kleinen Kay gar nicht."
Was sagten die Hyazinthen? "Es waren drei schöne Schwestern, gar durchsichtig und fein; der einen Kleid war rot, das der anderen blau, der dritten ihres ganz weiß; Hand in Hand tanzten sie beim stillen See im hellen Mondenschein. Es waren keine Elfen, es waren Menschenkinder. Dort duftete es herrlich, und die Mädchen verschwanden im Wald. Der Duft wurde stärker; drei Särge, darin lagen die schönen Mädchen, glitten von des Waldes Dickicht über den See dahin; die Johanniswürmchen flogen leuchtend ringsumher wie kleine schwebende Lichter. Schlafen die tanzenden Mädchen, oder sind sie tot? Der Blumenduft sagt, sie sind Leichen; die Abendglocke läutet den Grabgesang!" - "Du machst mich ganz betrübt," sagte die kleine Gerda. "Du duftest so stark; ich muß an die toten Mädchen denken! Ach, ist denn der kleine Kay wirklich tot? Die Rosen sind unten in der Erde gewesen, und die sagen nein!" - "Kling, klang!" läuten die Hyazinthen-Glocken. "Wir läuten nicht für den kleinen Kay, wir kennen ihn nicht; wir singen nur unser Lied, das einzige, welches wir kennen."
Und Gerda ging zur Butterblume, die aus den glänzenden, grünen Blättern hervorschien. "Du bist eine kleine helle Sonne!" sagte Gerda. "Sage mir, ob du weißt, wo ich meinen Gespielen finden kann?" Und die Butterblume glänzte so schön und sah wieder auf Gerda. Welches Lied konnte wohl die Butterblume singen? Es handelte auch nicht vom Kay. "In einem kleinen Hof schien die liebe Gottessonne am ersten Frühlingstage sehr warm; die Strahlen glitten an des Nachbarhauses weißen Wänden herab. Dicht dabei wuchs die erste gelbe Blume und glänzte golden in den warmen Sonnenstrahlen. Die alte Großmutter saß draußen in ihrem Stuhl. Die Enkelin, ein armes, schönes Dienstmädchen kehrte von einem kurzen Besuch heim. Sie küßte die Großmuter; es war Gold, Herzensgold in dem gesegneten Kuß. Gold im Munde, Gold im Grunde, Gold in der Morgenstunde! Sieh, das ist meine kleine Geschichte!" sagte die Butterblume.
"Meine arme, alte Großmutter!" seufzte Gerda. "Ja, sie sehnt sich gewiß nach mir und grämt sich um mich, ebenso wie sie es um den kleinen Kay tat. Aber ich komme bald wieder nach Hause, und dann bringe ich Kay mit. Es nützt nichts, daß ich die Blumen frage, die wissen nur ihr eigenes Lied; sie geben mir keinen Bescheid!" Und dann band sie ihr kleines Kleid auf, damit sie rascher laufen könne; aber die Pfingstlilie schlug ihr über das Bein, als sie darüber hinsprang. Da blieb sie stehen, betrachtete die lange gelbe Blume und fragte: "Weißt du vielleicht etwas'?" Und sie bog sich ganz zur Pfingstlilie hinab; und was sagte die?
"Ich kann mich selbst erblicken! Ich kann mich selbst sehen!" sagte die Pfingstlilie. "Oh, oh, wie ich rieche! Oben in dem kleinen Erkerzimmer steht, halb angekleidet, eine kleine Tänzerin; sie steht bald auf einem Bein, bald auf beiden. Sie tritt die ganze Welt mit Füßen; sie ist nichts als Augentäuschung. Sie gießt Wasser aus dem Teetopf auf ein Stück Zeug aus, welches sie hält; es ist der Schnürleib; Reinlichkeit ist eine schöne Sache! Das weiße Kleid hängt am Haken; das ist auch im Teetopf gewaschen und auf dem Dach getrocknet; sie zieht es an und schlägt das safrangelbe Tuch um den Hals; nun scheint das Kleid noch weißer. Das Bein ausgestreckt! Sieh, wie sie auf einem Stiele prangt! Ich kann mich selbst erblicken! Ich kann mich selbst sehen!" - "Darum kümmere ich mich gar nicht!" sagte Gerda. "Das brauchst du mir nicht zu erzählen"; und dann lief sie nach dem Ende des Gartens.
Die Tür war verschlossen, aber sie drückte auf die verrostete Klinke, so daß diese abging; die Tür sprang auf, und die kleine Gerda lief barfüßig in die weite Welt hinaus. Sie blickte dreimal zurück, aber niemand war da, der sie verfolgte, zuletzt konnte sie nicht mehr laufen und setzte sich auf einen großen Stein; und als sie sich umsah, war es mit dem Sommer vorbei. Es war Spätherbst; das konnte man in dem schönen Garten gar nicht bemerken, wo immer Sonnenschein und Blumen aller Jahreszeiten waren.
"Gott, wie habe ich mich verspätet!" sagte die kleine Gerda. "Es ist ja Herbst geworden! Da darf ich nicht ruhen!" Und sie erhob sich, um zu gehen.
Oh, wie waren ihre kleinen Füße wund und müde! Ringsumher sah es kalt und rauh aus; die langen Weidenblätter waren ganz gelb, und der Trau tröpfelte als Wasser herab. Ein Blatt fiel nach dem andern ab; nur der Schlehdorn trug noch Früchte, die waren aber herbe und zogen ihr den Mund zusammen. Oh, wie war es grau und schwer in der weiten Welt!
Vierte Geschichte
Prinz und Prinzessin
Gerda mußte wieder ausruhen; da hüpfte dort auf dem Schnee, der Stelle, wo sie saß, gerade gegenüber, eine große Krähe; die hatte lange ruhig gesessen, sie betrachtet und mit dem Kopf gewackelt. Nun sagte sie: "Kra! Kra – Gu' Tag! Gu' Tag." Besser konnte sie es nicht herausbringen, aber sie meinte es gut mit dem kleinen Mädchen und frage, wohin sie so allein in die weite Welt hinausginge. Das Wort allein verstand Gerda sehr wohl und fühlte recht, wieviel darin liegt; und sie erzählte der Krähe ihr ganzes Leben und Schicksal und fragte, ob sie Kay nicht gesehen habe.
Und die Krähe nickte ganz bedächtig und sagte: "Das könnte sein! Das könnte sein!" - "Wie? Glaubst du?" rief das kleine Mädchen und hätte fast die Krähe tot gedrückt: so küßte sie diese. "Vernünftig, vernünftig!" sagte die Krähe. "Ich glaube, ich weiß; ich glaube, es kann sein; der kleine Kay – aber nun hat er dich sicher über der Prinzessin vergessen!" - "Wohnt er bei einer Prinzessin?" frage Gerda. "Ja, höre!" sagte die Krähe. "Aber es fällt mir so schwer, deine Sprache zu reden. Verstehst du die Krähensprache, dann will ich besser erzählen." - "Nein, die habe ich nicht gelernt," sagte Gerda; "aber die Großmutter verstand sie, und auch sprechen konnte sie diese Sprache. Hätte ich sie nur gelernt!" - "Tut gar nichts!" sagte die Krähe. "Ich werde erzählen, so gut ich kann; aber schlecht wird es gehen"; und dann erzählte sie, was sie wußte.
"In diesem Königreich, in welchem wir jetzt sitzen, wohnt eine Prinzessin, die ist ganz unbändig klug; aber sie hat auch alle Zeitungen, die es in der Welt gibt, gelesen und wieder vergessen, so klug ist sie. Neulich saß sie auf dem Thron, und das ist doch nicht so angenehm, sagt man; da fängt sie an, ein Lied zu singen, und das war gerade dieses: 'Weshalb sollt' ich wohl heiraten!' 'Höre, da ist etwas daran', sagte sie, und so wollte sie sich verheiraten; aber sie wollte einen Mann haben, der zu antworten verstehe, wenn man mit ihm spräche; einen, der nicht bloß dastände und vornehm aussähe, denn das sei zu langweilig. Nun ließ sie alle Hofdamen zusammentrommeln, und als diese hörten, was sie wollte, wurden sie sehr vergnügt. 'Das mag ich leiden!' sagten sie; 'daran dachte ich neulich auch!' – Du kannst glauben, daß jedes Wort, was ich sage, wahr ist!" sagte die Krähe. "Ich habe eine zahme Geliebte, die geht frei im Schlosse umher, und die hat mir alles erzählt!" Die Geliebte war natürlicherweise auch eine Krähe. Denn eine Krähe sucht die andere, und es bleibt immer eine Krähe.
"Die Zeitungen kamen sogleich mit einem Rand von Herzen und der Prinzessin Namenszug heraus; man konnte darin lesen, daß es einem jeden jungen Manne, der gut aussehe, freistehe, auf das Schloß zu kommen und mit der Prinzessin zu sprechen, und derjenige, welcher am besten und so spräche, daß man hören könne, er sei in dem, was er spräche, zu Hause, den wolle die Prinzessin zum Manne nehmen." – "Ja, Ja," sprach die Krähe, "du kannst es mir glauben, es ist so gewiß wahr, wie ich hier sitze. Junge Männer strömten herzu; es war ein Gedränge und ein Gelaufe; aber es glückte keinem, weder am ersten nach am zweiten Tag. Sie konnten alle gut sprechen, wenn sie draußen auf der Straße waren, aber wenn sie in das Schloßtor traten und dort die Gardisten in Silber sahen und auf den Treppen die Lakaien in Gold und die großen erleuchteten Säle, dann wurden sie verwirrt. Und standen sie gar vor dem Throne, wo die Prinzessin saß, dann wußten sie nichts zu sagen als das letzte Wort, das die gesprochen hatte; und das noch einmal zu hören, dazu hatte sie keine Lust. Es war gerade, als ob sie drinnen Schnupftabak auf den Magen bekommen hätten und in den Schlaf gefallen wären, bis sie wieder auf die Straße kamen, denn dann konnten sie sprechen. Da stand eine Reihe vom Stadttor bis zum Schlosse hin. Ich war selbst drinnen, um es zu sehen!" sage die Krähe. "Sie wurden hungrig und durstig, aber auf dem Schloß erhielten sie nicht einmal ein Glas laues Wasser. Zwar hatten einige der Klügsten, Butterbrot mitgebracht, aber sie teilten nicht mir ihrem Nachbarn; sie dachten so: laß ihn nur hungrig aussehen, dann nimmt ihn die Prinzessin nicht!"
"Aber Kay, der kleine Kay!" fragte Gerda. "Wann kam der? War er unter der Menge?" - "Warte! warte! jetzt sind wir gerade bei ihm! Es war am dritten Tag, da kam eine kleine Person, ohne Pferd oder Wagen, ganz fröhlich gerade auf das Schloß zumarschiert; seine Augen glänzten wie deine; er hatte schöne lange Haare, aber sonst ärmliche Kleider." - "Das war Kay!" jubelte Gerda. "Oh, dann habe ich ihn gefunden!" und sie klatschte in die Hände.
"Er hatte ein kleines Ränzel auf dem Rücken!" sagte die Krähe. "Nein, das war sicher sein Schlitten!" sagte Gerda; "denn mit dem Schlitten ging er fort!" - "Das kann wohl sein," sagte die Krähe, "ich sah nicht so genau danach! Aber das weiß ich von meiner zahmen Geliebten; als er in das Schloßtor kam und die Leibgardisten in Silber sah und auf den Treppen die Lakaien in Gold, daß er nicht im mindesten verlegen wurde; er nickte und sagte zu ihnen: 'es muß langweilig sein, auf der Treppe zu stehen; ich gehe lieber hinein!'. Da glänzten die Säle von Lichtern; Geheimräte und Exzellenzen gingen mit bloßen Füßen und trugen Goldgefäße; man konnte wohl andächtig werden! Seine Stiefel knarrten gar gewaltig laut, aber ihm wurde doch nicht bange."
"Das ist ganz gewiß Kay!" sagte Gerda. "Ich weiß, er hatte neue Stiefel an, ich habe sie in der Großmutter Stube knarren hören!"
"Ja, freilich knarrten sie!" sagte die Krähe. "Und frischen Muts ging er gerade zur Prinzessin hinein, die auf einer großen Perle saß, welche so groß wie ein Spinnrad war; und alle Hofdamen mit ihren Jungfern und den Jungfern der Jungfern und alle Kavaliere mit ihren Dienern und den Dienern der Diener, die wieder einen Burschen hielten, standen ringsherum aufgestellt; und je näher sie der Türe standen, desto stolzer sahen sie aus. Des Dieners Diener Burschen, der immer in Pantoffeln geht, darf man kaum anzusehen wagen; so stolz steht er an der Tür!"
"Das muß greulich sein!" sagte die kleine Gerda. "Und Kay hat doch die Prinzessin erhalten?"
"Wäre ich nicht eine Krähe gewesen, so hätte ich sie genommen, und das ungeachtet ich verlobt bin. Er soll ebenso gut gesprochen haben, wie ich spreche, wenn ich die Krähensprache rede; das habe ich von meiner zahmen Geliebten gehört. Er war fröhlich und niedlich, Er war nicht gekommen zum Freien, sondern nur, um der Prinzessin Klugheit zu hören; und die fand er gut, und sie fand ihn wieder gut."
"Ja, sicher! das war Kay!" sagte Gerda. "Er war so klug; er konnte die Kopfrechnung mit Brüchen! Oh, willst du mich nicht auf dem Schloß einführen?"
"Ja, das ist leicht gesagt!" antwortete die Krähe. "Aber wie machen wir das? Ich werde es mit meiner zahmen Geliebten besprechen; sie kann uns wohl Rat erteilen; denn das muß ich dir sagen: so ein kleines Mädchen, wie du bist, bekommt nie die Erlaubnis, ganz hinein zu kommen!"
"Ja, die erhalten ich!" sagte Gerda. "Wenn Kay hört, daß ich da bin, kommt er gleich heraus und holt mich!" - "Erwarte mich dort am Gitter!" sagte die Krähe, wackelte mit dem Kopfe und flog davon.
Erst als es spät am Abend war, kehrte die Krähe wieder zurück. "Rar! Rar!" sagte sie. "Ich soll dich vielmal von ihr grüßen, und hier ist ein kleines Brot für dich, daß nahm sie aus der Küche; dort ist Brot genug, und du bist sicher hungrig. Es ist nicht möglich, daß du in das Schloß hineinkommen kannst: du bist ja barfuß. Die Gardisten in Silber und Lakaien in Gold würden es nicht erlauben. Aber weine nicht! Du sollst schon hinaufkommen. Meine Geliebte kennt eine kleine Hintertreppe, die zum Schlafgemach führt, und sie weiß, wo sie den Schlüssel erhalten kann."
Und die gingen in den Garten hinein, in die große Allee, wo ein Blatt nach dem anderen abfiel; und als auf dem Schloß die Lichter ausgelöscht wurden, das eine nach dem andern, führte die Krähe die kleine Gerda zu einer Hintertür, die nur angelehnt war.
Oh, wie Gerdas Herz vor Angst und Sehnsucht pochte! Es war gerade, als ob sie etwas Böses tun wollte; und sie wollte ja doch nur wissen, ob es der kleine Kay sei. Ja, er mußte es sein; sie gedachte so lebendig seiner klugen Augen, seines langen Haares; sie konnte ordentlich sehen, wie er lächelte, wie damals, als sie daheim unter den Rosen saßen. Er würde sicher froh werden, sie zu erblicken; zu hören, welchen langen Weg sie um seinetwillen zurückgelegt; zu wissen, wie betrübt sie alle daheim gewesen, als er nicht wiedergekommen. Oh, das war eine Furcht und eine Freude!
Nun waren sie auf der Treppe; da brannte eine kleine Lampe auf einem Schrank; mitten auf dem Fußboden stand die zahme Krähe; "Ihre Vita, wie man es nennt, ist auch sehr rührend. Wollen Sie die Lampe nehmen, dann werde ich vorausgehen. Wir gehen hier den geraden Weg, denn da begegnen wir niemandem."
"Es ist mir, als ginge jemand hinter uns," sagte Gerda: und es sauste an ihr vorbei. Es war wie Schatten an der Wand: Pferde mit fliegenden Mähnen und dünnen Beinen, Jägerburschen, Herren und Damen zu Pferde.
"Das sind nur Träume," sagte die Krähe; "die kommen und holen der hohen Herrschaft Gedanken zur Jagd. Das ist recht gut, dann können Sie sie besser im Bette betrachten. Aber ich hoffe, wenn Sie zu Ehren und Würden gelangen, werden Sie ein dankbares Herz zeigen."
"Das versteht sich von selbst!" sagte die Krähe vom Walde. "Nun kamen sie in den ersten Saal; der war von rosenrotem Atlas mit künstlichen Blumen an den Wänden hinauf; hier sausten an ihnen schon die Träume vorbei; aber sie fuhren so schnell, daß Gerda die hohen Herrschaften nicht zu sehen bekam. Ein Saal war immer prächtiger als der andere; ja man konnte verdutzt werden." Nun waren sie im Schlafgemach. Hier glich die Decke einer großen Palme mit Blättern von Glas, von kostbarem Glase; und mitten auf dem Fußboden hingen an einem dicken Stengel von Gold zwei Betten, von denen jedes wie eine Lilie aussah; die eine war weiß, in der lag die Prinzessin; die andere war rot, und in dieser sollte Gerda den kleinen Kay suchen. Sie bog eines der roten Blätter zur Seite, und da sah sie einen braunen Nacken.
Oh, das war Kay! Sie rief ganz lauf seinen Namen, hielt die Lampe nach ihm hin – die Träume sausten zu Pferde wieder in die Stube herein – er erwachte, drehte den Kopf und und – es war nicht der kleine Kay.
Der Prinz glich ihm nur im Nacken; aber jung und Hübsch war er. Und aus dem weißen Lilienblatt blinzelte die Prinzessin hervor und frage, wer da sei. Da weinte die kleine Gerda und erzählte ihre ganze Geschichte und alles, was die Krähen für sie getan hätten.
"Du armes Kind!" sprach der Prinz und die Prinzessin; und sie belobten die Krähen und sagten, daß sie gar nicht böse auf sie seien; aber sie sollten es doch nicht öfters tun. Übrigens sollten sie eine Belohnung erhalten.
"Wollt ihr frei fliegen?" fragte die Prinzessin. "Oder wollt ihr feste Anstellung als Hofkrähen haben, mit allem, was in der Küche abfällt?" Und beide Krähen verneigten sich und baten um feste Anstellung, denn sie gedachten des Alters und sagten: "Es wäre gar schön, etwas für die alten Tage zu haben," wie sie es nannten.
Und der Prinz stand aus seinem Bette auf und ließ Gerda darin schlafen, doch mehr konnte er nicht tun. Sie faltete ihre kleinen Hände und dachte: "Wie gut sind die Menschen und die Tiere!" Und dann schloß sie ihre Augen und schlief so sanft. Alle Träume kamen wieder hereingeflogen, und da sahen sie wie Gottes Engel aus, und sie zogen einen kleinen Schlitten, auf welchem Kay saß und nickte; aber das Ganze war nur Traum, und deshalb war es auch wieder fort, sobald sie erwachte.
Am folgenden Tag wurde sie von Kopf bis Fuß in Seide und Samt gekleidet; es wurde ihr angeboten, auf dem Schloß zu bleiben und gute Tage zu genießen; aber sie bat nur um einen kleinen Wagen mit einem Pferd davor und um ein Paar kleine Stiefel; dann wolle sie wieder in die weite Welt hinausfahren und Kay suchen.
Und sie erhielt sowohl Stiefel als auch einen Muff; sie wurde niedlich gekleidet, und als sie fort wollte, hielt vor der Tür eine neue Kutsche aus reinem Gold; des Prinzen und der Prinzessin Wappen glänzte an derselben wie ein Stern; Kutscher, Diener und Vorreiter, denn es waren auch Vorreiter da, saßen mit Goldkronen auf dem Kopf zu Pferde. Der Prinz und die Prinzessin selbst halfen ihr in den Wagen und wünschten ihr alles Glück. Die Waldkrähe, welche nun verheiratet war, begleitete sie die ersten drei Meilen; sie saß ihr zur Seite, denn sie konnte nicht vertragen, rückwärts zu fahren. Die andere Krähe stand in der Tür und schlug mit den Flügeln; sie kam nicht mit, denn sie litt an Kopfschmerzen, seitdem sie eine feste Anstellung und zuviel zu essen erhalten hatte. Inwendig war die Kutsche mit Zuckerbrezeln gefüttert, und im Sitz waren Früchte und Pfeffernüsse.
"Lebe wohl! Lebe wohl!" riefen der Prinz und die Prinzessin; und die kleine Gerda weinte, und die Krähe weinte. So ging es die ersten Meilen; da sagte auch die Krähe Lebewohl, und das war der schwerste Abschied; sie flog auf einen Baum und schlug mit ihren schwarzen Flügeln, so lange sie den Wagen, welcher wie der helle Sonnenschein glänzte, erblicken konnte.
Fünfte Geschichte
Das kleine Räubermädchen
Sie fuhren durch den dunklen Wald, aber die Kutsche leuchtete wie eine Fackel; das stach den Räubern in die Augen, das konnten sie nicht ertragen. "Das ist Gold, das ist Gold!" riefen sie, stürzten hervor, hielten die Pferde an, schlugen die kleinen Vorreiter, den Kutscher und die Diener tot und zogen dann die kleine Gerda aus dem Wagen.
"Sie ist fett, sie ist niedlich, sie ist mit Mußkernen gefüttert!" sagte das alte Räuberweib, das einen langen struppigen Bart und Augenbrauen hatte, die ihm über die Augen herabhingen.
"Die ist so gut wie ein kleines fettes Lamm; wie wird die schmecken!" Und dann zog es sein blankes Messer heraus, und das glänzte, daß es gräßlich war.
"Au!" sagte das Weib zu gleicher Zeit; es wurde von der eigenen Tochter, die auf dessen Rücken hing, so wild und unartig in das Ohr gebissen, daß es eine Lust war. "Du häßlicher Balg!" sagte die Mutter und hatte nicht Zeit, Gerda zu schlachten.
"Sie soll mit mir spielen!" sagte das kleine Räubermädchen. "Sie soll mir ihren Muff, ihr hübsches Kleid geben, bei mir in meinem Bette schlafen!" Und dann bis sie wieder, daß das Räuberweib in die Höhe sprang und sich ringsherum drehte. Und alle Räuber lachten und sagten: "Seht, wie es mit seinem Kalbe tanzt!"
"Ich will in den Wagen hinein," sagte das kleine Räubermädchen. Und es mußte und wollte seinen Willen haben, denn es war ganz verzogen und sehr hartnäckig! Es saß mit Gerda drinnen, und so fuhren sie über Stock und Stein immer tiefer in den Wald. Das kleine Räubermädchen war so groß wie Gerda, aber stärker, breitschultriger und von dunkler Haut; die Augen waren ganz schwarz; sie sahen fast traurig aus. Sie faßte die kleine Gerda um den Leib und sagte: "Sie sollen dich nicht schlachten, so lange ich dir nicht böse werde. Du bist wohl eine Prinzessin?"
"Nein," sagte Gerda und erzählte ihr alles, was sie erlebt hatte und wie sehr sie den kleinen Kay lieb hätte.
Das Räubermädchen betrachtete sie ganz ernsthaft, nickte ein wenig mit dem Kopf und sagte: "Sie sollen dich nicht schlachten, selbst wenn ich dir böse werde; dann werde ich es schon selber tun!" Und dann trocknete sie Gerdas Augen und steckte ihre beiden Hände in den schönen Muff, der gar weich und warm war.
Nun hielt die Kutsche still; sie waren mitten auf dem Hof eines Räuberschlosses. Dasselbe war von oben bis unten geborsten; Raben und Krähen flogen aus den offenen Löchern, und die großen Bullenbeißer, von denen jeder aussah, als könnte er einen Menschen verschlingen, sprangen hoch empor aber sie bellten nicht, denn es war verboten.
In dem großen, alten, verräucherten Saal brannte mitten auf dem steinernen Fußboden ein helles Feuer; der Rauch zog unter der Decke hin und mußte sich selbst den Ausweg suchen; ein großer Braukessel mit Suppe kochte, und Hasen wie Kaninchen wurden an Spießen gebraten.
"Du sollst die Nacht mit mir bei allen meinen kleinen Tiefen schlafen," sagte das Räubermädchen. Sie bekamen zu essen und zu trinken und gingen dann in eine Ecke, wo Stroh und Teppiche lagen. Darüber saßen auf Latten und Stäben mehr als hundert Tauben, die alle zu schlafen schienen, sich aber doch ein wenig drehten, als die beiden kleinen Mädchen kamen.
"Die gehören alle mir!" sagte das kleine Räubermädchen und ergriff rasch eine der nächsten, hielt sie bei den Füßen und schüttelte sie, daß sie mit den Flügeln schlug. "Küsse sie!" rief sie und schlug sie Gerda ins Gesicht. "Da sitzen die Waldkanaillen," fuhr es fort und zeigte hinter eine Anzahl Stäbe, die vor einem Loch oben in die Mauer eingeschlagen waren. "Das sind Waldkanaillen, die beiden; die fliegen gleich fort, wenn man sie nicht ordentlich verschlossen hält; und hier steht mein alter liebster Ba!" Und sie zog ein Rentier am Horn vor, welches einen blanken kupfernen Ring um den Hals trug und angebunden war. "Den müssen wir auch in der Klemme halten, sonst springt er von uns fort. An jedem Abend kitzele ich ihn mit meinem scharfen Messer am Halse, davor furchtet er sich sehr!" Und das kleine Mädchen zog ein langes Messer aus einer Spalte in der Mauer und ließ es über des Renntiers Hals hingleiten; das arme Tier schlug mit den Beinen aus, das kleine Räubermädchen lachte und zog dann Gerda mit in das Bett hinein.
"Willst du das Messer bei dir behalten, wenn du schläfst?" frage Gerda und blickte es etwas furchtsam an.
"Ich schlafe immer mit dem Messer!" sagte das kleine Räubermädchen. "Man weiß nie, was vorfallen kann. Aber fahre nun fort mit dem, was du mir vorhin von dem kleinen Kay erzähltest und weshalb du in die weite Welt hinausgegangen bist." Und Gerda erzählte wieder von vorn, und die Waldtauben gurrten oben im Käfig, und die andern Tauben schliefen. Das kleine Räubermädchen legte seinen Arm um Gerdas Hals, hielt das Messer in der andren Hand und schlief, daß man es hören konnte; aber Gerda konnte ihre Augen nicht schließen, sie wußte nicht, ob sie leben oder sterben würde. Die Räuber saßen rings um das Feuer, sangen und tranken, und das Räuberweib überpurzelte sich. Oh, es war ganz gräßlich für das kleine Mädchen mit anzusehen.
Da sagten die Waldtauben: "Kurre! Kurre! wir haben den kleinen Kay gesehen. Ein weißes Huhn trug seinen Schlitten; er saß im Wagen der Schneekönigin, welcher dicht über den Wald hinfuhr, als wir im Nest lagen; sie blies auf uns Junge, und außer uns beiden starben alle. Kurre! Kurre!" - "Was sagt ihr da oben?" rief Gerda. "Wohin reiste die Schneekönigin? Wißt ihr etwas davon?"
"Sie reiste wahrscheinlich nach Lappland, denn dort ist immer Schnee und Eis! Frage das Rentier, welches am Strick angebunden steht." - "Dort ist Eis und Schnee, dort ist es herrlich und gut!" sagte das Rentier. "Dort springt man frei umher in den großen glänzenden Tälern! Dort hat die Schneekönigin ihr Sommerzelt; aber ihr festes Schloß ist oben, gegen den Nordpol zu, auf der Insel, die Spitzbergen genannt wird!" - "O Kay, kleiner Kay!" seufzte Gerda. "Du mußt still liegen!" sagte das Räubermädchen; "Sonst stoße ich dir das Messer in den Leib!"
Am Morgen erzählte Gerda ihr alles, was die Waldtauben gesagt hatten und das kleine Räubermädchen sah ganz ernsthaft aus, nickte aber mit dem Kopfe und sagte: "Das ist einerlei! Das ist einerlei! – Weißt du, wo Lappland ist?" fragte sie das Rentier. "Wer könnte es wohl besser wissen als ich?" sagte das Tier, und die Augen funkelten ihm im Kopfe. "Dort bin ich geboren und erzogen; dort bin ich auf den Schneefeldern herumgesprungen!"
"Höre!" sagte das Räubermädchen zu Gerda; "du siehst, alle unsere Mannsleute sind fort, nur die Mutter ist noch hier, und die bleibt; aber gegen Mittag trinkt sie aus der großen Flasche und schlummert nachher ein wenig darauf; dann werde ich etwas für dich tun!" Nun sprang sie aus dem Bett, fuhr der Mutter um den Hals, zupfte sie am Bart und sagte: "Mein einzig lieber Ziegenbock, guten Morgen!" Und die Mutter gab ihr Nasenstüber, daß die Nase rot und blau wurde; und das geschah alles aus lauter Liebe.
Als die Mutter dann aus ihrer Flasche getrunken hatte und darauf einschlief, ging das Räubermädchen zum Rentier hin und sagte: " Ich könnte große Freude daran haben, dich noch manches Mal mit dem scharfen Messer zu kitzeln, denn dann bist du so possierlich; aber es ist einerlei. Ich will deine Schnur lösen und dir hinaushelfen, damit du nach Lappland laufen kannst; aber du mußt tüchtig Beine machen und dieses kleine Mädchen zum Schlosse der Schneekönigin bringen, wo ihr Spielkamerad ist. Du hast wohl gehört, was sie erzählte, denn sie sprach laut genug, und du horchtest!"
Das Rentier sprang vor Freude hochauf. Das Räubermädchen hob die kleine Gerda hinaus und hatte die Vorsicht, sie fest zu binden, ja sogar, ihr ein kleines Kissen zum Sitzen zu geben: "Da hast du auch deine Pelzstiefel," sagte sie, "denn es wird kalt; aber den Muff behalte ich, der ist gar zu niedlich! Darum sollst du aber doch nicht frieren. Hier hast du meiner Mutter große Fausthandschuhe, die reichen dir gerade bis zum Ellbogen hinauf. Krieche hinein: Nun siehst du an den Händen ebenso aus wie meine häßliche Mutter!"
Und Gerda weinte vor Freude. "Ich kann nicht leiden, daß du weinst!" sagte das kleine Räubermädchen. "Jetzt mußt du gerade recht froh aussehen! Und da hast du zwei Brote und einen Schinken; nun wirst du nicht hungern." Beides wurde hinten auf das Rentier gebunden, das kleine Räubermädchen öffnete die Tür, lochte alle die großen Hunde herein, durchschnitt dann den Strick mit ihrem scharfen Messer und sagte zum Rentier: "Laufe nun! Aber gib auf das kleine Mädchen recht acht!"
Und Gerda streckte die Hände mit den großen Fausthandschuhen gegen das Räubermädchen aus und sagte Lebewohl, und dann flog das Rentier über Stock und Stein davon, durch den großen Wald über Sümpfe und Steppen, so schnell es nur konnte. Die Wölfe heulten, und die Raben schrieen. – Fugt! Fugt! ging es am Himmel. Es war gleichsam, als ob er rot niese.
"Das sind meine alten Nordlichter!" sagte das Rentier; "sieh, wie sie leuchten!" Und dann lief es noch schneller davon, Tag und Nacht. Die Brote wurden verzehrt, der Schinken auch, und dann waren sie in Lappland.
Sechste Geschichte
Die Lappin und die Finnin
Bei einem kleinen Haus hielten sie an; es war sehr jämmerlich. Das Dach ging bis zur Erde herunter, und die Tür war so niedrig, daß die Familie auf dem Bauch kriechen mußte, wenn sie heraus oder hinein wollte. Hier war außer einer alten Lappin, die bei einer Tranlampe Fische kochte, niemand im Hause; und das Rentier erzählte Gerdas ganze Geschichte, aber zuerst seine eigene, denn diese erschien ihm weit wichtiger; und Gerda war so angegriffen von der Kälte, daß sie nicht sprechen konnte.
"Ach, ihr Armen!" sagte die Lappin; "da habt ihr noch weit zu laufen! Ihr müßt über hundert Meilen weit in Finnmarken hinein, denn da wohnt die Schneekönigin auf dem Lande und brennt jeden Abend bengalische Flammen. Ich werde einige Worte auf einen trocknen Stockfisch schreiben, Papier habe ich nicht; den werde ich euch für die Finnin dort oben mitgeben. Sie kann euch besser Bescheid erteilen als ich!"
Und als Gerda nun erwärmt worden war und zu essen und zu trinken bekommen hatte, schrieb die Lappin einige Worte auf einen trockenen Stockfisch, bat Gerda, wohl darauf zu achten, band sie wieder auf dem Rentier fest, und dieses sprang davon. Fugt! Fugt! ging es oben in der Luft; die ganze Nacht brannten die schönsten blauen Nordlichter. Und dann kamen sie nach Finnmarken und klopften an den Schornstein der Finnin, denn sie hatte nicht einmal eine Tür.
Da war eine solche Hitze drinnen, daß die Finnin selbst fast völlig nackt ging. Sie war klein und ganz schmutzig. Sofort zog sie der kleinen Gerda die Fausthandschuhe und Stiefel aus, denn sonst wäre es ihr zu heiß geworden, legte dem Rentier ein Stück Eis auf den Kopf und las dann, was auf dem Stockfisch geschrieben stand. Sie las es dreimal, und dann wußte sie es auswendig und steckte den Fisch in den Suppenkessel, denn er konnte ja gegessen werden, und sie verschwendete nie etwas.
Nun erzählte das Rentier zuerst seine Geschichte, dann die der kleinen Gerda, und die Finnin blinzelte mit den klugen Augen, sagte aber gar nichts.
"Du bist sehr klug," sagte das Rentier; "ich weiß, du kannst alle Winde der Welt in einen Zwirnsfaden zusammenbinden. Wenn der Schiffer den einen Knoten löst, so bekommt er guten Wind, löst er den andern, dann weht es scharf, und löst er den dritten und vierten, dann stürmt es, daß die Wälder umfallen. Willst du nicht dem kleinen Mädchen einen Trank geben, daß sie Zwölf-Männer-Kraft erhält und die Schneekönigin überwindet?"
"Zwölf-Männer-Kraft?" sagte die Finnin. "Ja, das würde viel helfen!" Und dann ging sie zu einem Bett, nahm ein großes zusammengerolltes Fell hervor und rollte es auf. Da waren wunderbare Buchstaben darauf geschrieben, und die Finnin las, daß ihr das Wasser von der Stirn herunterlief.
Aber das Rentier bat wieder so sehr für die kleine Gerda, und Gerda blickte die Finnin mit so bittenden Augen voller Tränen an, daß diese wieder mit den ihrigen zu blinzeln anfing und das Rentier in einen Winkel zog, wo sie ihm zuflüsterte, während es wieder frisches Eis auf den Kopf bekam:
"Der kleine Kay ist freilich bei der Schneekönigin und findet dort alles nach seinem Geschmack und Gefallen und glaubt, es sei der beste Ort in der Welt. Aber das kommt daher, daß er einen Glassplitter in das Herz und ein kleines Glaskörnchen in das Auge bekommen hat; die müssen zuerst heraus, sonst wird er nie wieder ein Mensch, und die Schneekönigin wird die Gewalt über ihn behalten!"
"Aber kannst du nicht der kleinen Gerda etwas eingeben, so daß sie Gewalt über das Ganze erhält?" - "Ich kann ihr keine größere Gewalt geben als sie schon hat; siehst du nicht, wie groß die ist? Siehst du nicht, wie Menschen und Tiere ihr dienen müssen, wie sie mit bloßen Füßen so gut in der Welt fortgekommen ist? Sie kann nicht von uns ihre Macht erhalten; sie sitzt in ihrem Herzen und besteht darin, daß sie ein liebes unschuldiges Kind ist. Kann sie nicht selbst zur Schneekönigin hineingelangen und das Glas aus dem kleinen Kay entfernen, dann können wir nicht helfen! Zwei Meilen von hier beginnt der Schneekönigin Garten, dahin kannst du das kleine Mädchen tragen. Setze sie beim großen Busch ab, welcher mit roten Beeren im Schnee steht. Halte keinen Gevatterklatsch, sondern spute dich, hierher zurückzukommen!" Und dann hob die Finnin die kleine Gerda auf das Rentier, das lief, was es konnte.
"Oh, ich habe meine Stiefel nicht! Ich habe meine Fausthandschuhe nicht!" rief die kleine Gerda. Das merkte sie in der schneidenden Kälte; aber das Rentier wagte nicht, anzuhalten. Es lief, bis es zu dem Busch mit den roten Beeren gelangt. Da setzte es Gerda ab und küßte sie auf den Mund, und es liefen große, heiße Tränen über die Backen des Tieres; und dann sprang es, was es nur konnte, wieder zurück. Da stand die arme Gerda ohne Schuhe, ohne Handschuhe mitten in den fürchterlichen, eiskalten Finnmarken.
Sie lief vorwärts, so schnell sie nur konnte. Da kam ein ganzes Regiment Schneeflocken; aber die fielen nicht vom Himmel herunter, denn der war ganz hell und glänzte von Nordlichtern. Die Schneeflocken liefen gerade auf der Erde dahin, und je näher sie kamen, desto größer wurden sie. Gerda erinnerte sich noch, wie groß und künstlich die Schneeflocken damals ausgesehen hatten, als sie dieselben durch ein Brennglas betrachtete. Aber hier waren sie freilich noch weit größer und fürchterlicher; sie lebten. Sie waren der Schneekönigin Vorposten; sie hatten die sonderbarsten Gestalten. Einige sahen aus wie häßliche große Stachelschweine; andere wie Knoten, gebildet von Schlangen, welche die Köpfe hervorstrecken; noch andere wie kleine dicke Bären, auf denen die Haare sich sträuben. Alle waren glänzend weiß, alle waren lebendige Schneeflocken.
Da betete die kleine Gerda ihr Vaterunser. Und die Kälte war so groß, daß sie ihren eigenen Atem sehen konnte; der ging ihr wie Rauch aus dem Munde. Der Atem wurde dichter und dichter und gestaltete sich zu kleinen Engeln, die mehr und mehr wuchsen, wenn sie die Erde berührten; und alle hatten Helme auf dem Kopf und Spieße und Schilde in den Händen. Ihre Anzahl wurde größer und größer, und als Gerda ihr Vaterunser beendet hatte, war eine ganze Legion um sie. Sie stachen mit ihren Spießen gegen die greulichen Schneeflocken, so daß diese in hundert Stücke zersprangen. Und die kleine Gerda ging ganz sicher und frischen Mutes vorwärts. Die Engel streichelten ihr Hände und Füße, da empfand sie weniger, wie kalt es war und eilte zu der Schneekönigin Schloß.
Aber nun müssen wir doch erst sehen, was Kay macht. Er dachte freilich nicht an die kleine Gerda, und am wenigsten, daß sie draußen vor dem Schlosse stehe.
Siebente Geschichte
Von dem Schloß der Schneekönigin und war sich später darin zutrug
Die Wände des Schlosses waren gebildet von dem treibenden Schnee und Fenster und Türen von den schneidenden Winden. Es waren über hundert Säle darin, alle wie sie der Schnee zusammenwehte. Der größte erstreckte sich mehrere Meilen lang. Das starke Nordlicht beleuchtete sie alle, und sie waren so groß, so leer, so eisig kalt und so glänzend! nie gab es hier Lustbarkeiten, nicht einmal einen kleinen Bärenball, wozu der Sturm hätte aufspielen und wobei die Eisbären hätten auf den Hinterfüßen gehen und ihre feinen Manieren zeigen können; nie eine kleine Spielgesellschaft mit Maulklapp und Tatzenschlag; nie ein klein bißchen Kaffeeklatsch von den Weißfuchs- Fräuleins; leer, groß und kalt war es in der Schneekönigin Sälen. Die Nordlichter flammten so genau, daß man sie zählen konnte, wann sie am höchsten und wann sie am niedrigsten standen. Mitten in diesem leeren unendlichen Schneesaal war ein zugefrorener See, der war in tausend Stücke zersprungen; aber jedes Stück war dem andern so gleich, daß es ein vollkommenes Kunstwerk war. Und mitten auf dem See saß die Schneekönigin, wenn sie zu Hause war, und dann sagte sie, daß sie im Spiegel des Verstandes säße und daß dieser der einzige und der beste in der Welt sei.
Der kleine Kay war ganz blau vor Kälte, ja fast schwarz; aber er merkte es nicht, denn sie hatte ihm den Frostschauer abgeküßt, und sein Herz glich einem Eisklumpen. Er schleppte einige scharfe, flache Eisstücke hin und her, die er auf alle mögliche Weise aneinanderfügte, denn er wollte damit etwas herausbringen. Es war gerade, als wenn wir kleine Holztafeln haben und diese in Figuren aneinanderlegen, was man das chinesische Spiel nennt. Kay ging auch und legte Figuren, und zwar die allerkunstvollsten. Das war das Eisspiel des Verstandes. In seinen Augen waren die Figuren ganz ausgezeichnet und von der höchsten Wichtigkeit: das machte das Glaskörnchen, welches ihm im Auge saß! Er legte vollständige Figuren, die ein geschriebenes Wort waren; aber nie konnte er es dahin bringen, das Wort zu legen, das er unbedingt haben wollte, das Wort Ewigkeit. Und die Schneekönigin hatte gesagt: "Kannst du diese Figur ausfinden machen, dann sollst du dein eigener Herr sein, und ich schenke dir die ganze Welt und ein Paar neue Schlittschuhe." Aber er konnte es nicht.
"Nun sause ich fort zu den warmen Ländern!" sagte die Schneekönigin. "Ich will hinfahren und in die schwarzen Töpfe hineinsehen!" Das waren die feuerspeienden Berge Ätna und Vesuv, wie man sie nennt. "Ich werde sie ein wenig weiß machen! Das gehört dazu; das tut den Zitronen und Weintrauben gut!" Und die Schneekönigin flog davon, und Kay saß ganz allein in dem viele Meilen großen, leeren Eissaal, betrachtete die Eisstücke und dachte und dachte, so daß es in ihm knackte. Ganz steif und still saß er, man hätte glauben können, er sei erfroren.
Da geschah es, daß die kleine Gerda durch das große Tor in das Schloß trat. Hier herrschten schneidende Winde; aber sie betete ein Abendgebet, und da legten sich die Winde, als ob sie schlafen wollten. Und sie trat in die großen, leeren, kalten Säle ein – da erblickte sie Kay. Sie erkannte ihn, sie flog ihm um den Hals, hielt ihn so fest und rief: "Kay! Lieber, kleiner Kay! Da habe ich dich endlich gefunden!"
Aber er saß ganz still, steif und kalt; da weinte die kleine Gerda heiße Tränen, die fielen auf seine Brust, sie drangen in sein Herz, sie tauten den Eisklumpen auf und verzehrten das kleine Spiegelstück darin. Er betrachtete sie, und sie sang:
Rosen, die blüh'n und verwehen;
Wir werden das Christkindlein sehen!
Da brach Kay in Tränen aus. Er weinte so, daß das Spiegelsplitterchen aus dem Auge schwamm, und nun erkannte er sie und jubelte: "Gerda! Liebe, kleine Gerda! Wo bist du so lange gewesen? Und wo bin ich gewesen?" Und er blickte rings um sich her. "Wie kalt es hier ist! Wie es hier weit und leer ist!"
Und er klammerte sich an Gerda an, und sie lachte und weinte vor Freude. Das war so herrlich, daß selbst die Eisstücke vor Freude ringsherum tanzten, und als sie müde waren und sich niederlegten, lagen sie gerade in den Buchstaben, von denen die Schneekönigin gesagt hatte, daß er sie ausfindig machen sollte, dann wäre er sein eigener Herr und sie wolle ihm die ganze Welt und ein Paar neue Schlittschuhe geben.
Und Gerda küßte seine Wangen, und sie wurden blühend; sie küßte seine Augen, und sie leuchteten gleich den ihrigen; sie küßte seine Hände und Füße, und er war gesund und munter. Die Schneekönigin mochte nun nach Hause kommen; sein Freibrief stand da mit glänzenden Eisstücken geschrieben.
Und sie faßten einander bei den Händen und wanderten aus dem großen Schloß hinaus. Sie sprachen von der Großmutter und von den Rosen oben auf dem Dach; und wo sie gingen, ruhten die Winde und die Sonne brach hervor. Und als sie den Busch mit den roten Beeren erreichten, stand das Rentier da und wartete. Es hatte ein anderes junges Rentier mit sich, dessen Euter voll war; und dieses gab den Kleinen seine warme Milch und küßte sie auf den Mund. Dann trugen sie Kay und Gerda erst zur Finnin, wo sie sich in der heißen Stube aufwärmten und über die Heimreise Bescheid erhielten; dann zur Lappin, welche ihnen neue Kleider genäht und ihren Schlitten instand gesetzt hatte.
Das Rentier und das Junge sprangen zur Seite und folgten, gerade bis zur Grenze des Landes; dort sproßte das erste Grün hervor. Da nahmen sie Abschied vom Rentier und von der Lappin. "Lebt wohl!" sagten alle. Und die ersten kleinen Vögel begannen zu zwitschern, der Wald hatte grüne Knospen, und aus ihm kam auf einem prächtigen Pferde, welches Gerda kannte – es war vor der goldenen Kutsche angespannt gewesen – , ein jungen Mädchen geritten, mit einer leuchtend roten Mütze auf dem Kopf und Pistolen im Halfter. Das war das kleine Räubermädchen, welches es satt hatte, zu Hause zu sein, und nun erst gegen Norden und später, wenn ihr das nicht zusagte, nach einer andern Weltgegend hinwollte. Sie erkannte Gerda gleich, und Gerda erkannte Sie; das war eine Freude!
"Du bist ein schöner Patron mit deinem Umherschweifen!" sagte es zum kleinen Kay. "Ich möchte wissen, ob du verdienst, daß man deinethalben bis an der Welt Ende läuft!" Aber Gerde klopfte ihr die Wangen und fragte nach dem Prinzen und der Prinzessin. "Die sind nach fremden Ländern gereist!" sagte das Räubermädchen.
"Aber die Krähe?" sagte Gerda. "Ja, die Krähe ist tot!" erwiderte sie. "Die zahme Geliebte ist Witwe geworden und geht mit einem Endchen schwarzen wollenen Garns um das Bein; sie klagt ganz jämmerlich, und Geschwätz ist das Ganze! – Aber erzähle mir nun, wie es dir ergangen ist und wie du ihn erwischt hast." Und Gerda und Kay erzählten.
"Snipp-Snapp-Snurre-Purre-Basselurre;" sagte das Räubermädchen, nahm beide bei den Händen und versprach, daß, wenn es je durch ihre Stadt kommen sollte, es hinaufkommen werde, sie zu besuchen. Und dann ritt es in die weite Welt hinein. Aber Kay und Gerda gingen Hand in Hand, und wo sie gingen, war es herrlicher Frühling mit Blumen und mit Grün. Die Kirchenglocken läuteten, und sie erkannten die hohen Türme, die große Stadt; es war die, in der sie wohnten. Und sie gingen in dieselbe hinein und hin zur Türe der Großmutter, die Treppe hinaus, in die Stube hinein, wo alles wie früher auf derselben Stelle stand. Und die Uhr ging: "Tick! Tack!" und die Zeiger drehten sich. Aber indem sie durch die Tür gingen, bemerkten sie, daß sie erwachsene Menschen geworden waren. Die Rosen aus der Dachrinne blühten zum offenen Fenster hinein, und da standen die kleinen Kinderstühle, und Kay und Gerda setzten sich ein jeder auf den seinigen und hielten einander bei den Händen; die kalte, leere Herrlichkeit bei der Schneekönigin hatten sie gleich einem schweren Traum vergessen. Die Großmutter saß in Gottes hellem Sonnenschein und las laut aus der Bibel: "Werdet ihr nicht wie die Kinder, so werdet ihr das Reich Gottes nicht erben!"
Und Kay und Gerda sahen einander in die Augen, und sie verstanden auf einmal den alten Gesang:
Rosen, die blüh'n und verwehen;
Wir werden das Christkindlein sehen!
Da saßen sie beide, erwachsen und doch Kinder, Kinder im Herzen; und es war Sommer, warmer, wohltuender Sommer.