La regina della neve


La Reina de las Nieves


Fiaba in sette storie
Prima storia, che tratta dello specchio e delle schegge
Guarda, adesso cominciamo, quando saremo alla fine della storia ne sapremo più di quanto ne sappiamo adesso, perché qui si parla di uno spirito cattivo, uno dei peggiori, "il diavolo." Un giorno era proprio di buon umore, perché aveva costruito uno specchio che aveva la facoltà di far sparire immediatamente tutte le cose belle e buone che vi si rispecchiavano, come non fossero state nulla; quello che invece era brutto e che appariva orribile, risaltava ancora di più. I più bei paesaggi sembravano spinaci cotti, e gli uomini migliori diventavano orribili o stavano schiacciati a testa in giù; i volti venivano così deformati che non erano più riconoscibili, e se qualcuno aveva una lentiggine, allora poteva essere ben sicuro che questa si sarebbe allargata fino al naso e alla bocca. Era straordinariamente divertente, diceva il diavolo. Se c'era un pensiero pio e buono questo nello specchio diventava una smorfia, così il diavolo doveva per forza ridere della sua divertente invenzione. Tutti quelli che andavano a scuola di magia, perché lui teneva una scuola di magia, raccontavano in giro che era successo un prodigio: adesso finalmente si poteva vedere, dicevano, come erano veramente il mondo e gli uomini. Corsero intorno con lo specchio e alla fine non ci fu più un solo paese o un solo uomo che non fosse stato deformato nello specchio. Ora volevano volare fino al cielo per prendersi gioco degli angeli e "di nostro Signore". Più volavano in alto con lo specchio, più questo rideva con violenza: riuscivano a malapena a tenerlo; volarono sempre più in alto, vicino a Dio e agli angeli; a un certo punto lo specchio tremò così terribilmente per le risate, che sfuggì loro di mano e precipitò verso la terra, dove si ruppe in centinaia di milioni, di bilioni di pezzi, e ancora di più. E così fece molto più danno di prima, perché alcuni pezzi erano piccoli come granelli di sabbia, e volavano intorno al vasto mondo, e quando entravano negli occhi della gente vi rimanevano, così la gente vedeva tutto storto, oppure vedeva solo il lato peggiore delle cose, perché ogni piccolo pezzettino dello specchio aveva mantenuto la stessa forza che aveva lo specchio intero. A qualcuno una piccola scheggia dello specchio cadde addirittura nel cuore, e questo fu veramente orribile: il cuore divenne come un pezzo di ghiaccio. Alcune schegge dello specchio erano invece così grandi che vennero usate per farne vetri da finestra, ma non era il caso di guardare i propri amici attraverso quei vetri; altri pezzi diventarono occhiali, e questo fu proprio un male, quando la gente metteva gli occhiali per vedere meglio e per essere obiettiva. Il maligno rideva tanto che lo stomaco gli ballava tutto, e gli faceva il solletico. Ma fuori volavano ancora piccoli pezzi di vetro nell'aria. Ora sentiamo cosa accadde.
Seconda storia. Un bambino e una bambina
Nella grande città, dove ci sono tante case e tanti uomini che non resta posto perché tutta la gente possa avere un giardinetto, e dove per questo la maggior parte della gente deve accontentarsi dei fiori nei vasi, abitavano due bambini poveri, che avevano però un giardino appena più grande di un vaso di fiori. Non erano fratelli, ma si volevano bene come se lo fossero stati. I genitori erano vicini di casa, abitavano in due soffitte nel punto in cui i tetti delle due case confinavano e le grondaie si univano si affacciava da ogni casa una finestrella; bastava solo scavalcare la grondaia, per poter passare da una finestra all'altra.
I genitori avevano messo lì fuori ognuno una grossa cassa di legno e in questa crescevano le erbe aromatiche che usavano in cucina, e un piccolo roseto; ce n'era uno in ogni cassa e cresceva proprio bene. Un giorno i genitori pensarono di mettere le casse in modo trasversale sulla grondaia, così da unire quasi le due finestre e creare come un terrapieno di fiori. I rametti del pisello pendevano dalle casse, i roseti allungavano i rami e si arrampicavano intorno alle finestre, intrecciandosi in un arco di trionfo di verde e di fiori. Poiché le cassette erano molto alte e i bambini sapevano che non potevano scavalcarle avevano avuto il permesso di uscire dalla finestra, sedersi sui loro piccoli seggiolini sotto le rose e lì giocare beatamente.
D'inverno però questo divertimento non c'era. Le finestre erano gelate, ma allora i bimbi scaldavano una monetina di rame e la mettevano sulla finestra gelata, perché si formasse un piccolo spiraglio rotondo; dietro ogni spiraglio faceva capolino un dolcissimo occhio, uno da ogni finestra; erano il bambino e la bambina. Lui si chiamava Kay e lei Gerda. D'estate con un balzo potevano incontrarsi; d'inverno dovevano invece scendere molte scale e poi salirne altrettante; c'era tempesta di neve.
"Sono bianche api che sciamano!" disse la vecchia nonna.
"Hanno anche loro un'ape regina?" chiese il bambino, perché sapeva che tra le vere api c'era anche una regina.
"Certo che ce l'hanno!" rispose la nonna. "Vola dove le api sono più fitte! È più grande di tutte, e non si posa mai sulla tena, risale di nuovo nel cielo scuro. Molte notti d'inverno vola attraverso le strade della città e guarda nelle finestre, allora queste gelano in modo stranissimo, come venissero ricoperte di fiori."
"Sì, l'ho visto!" esclamarono entrambi i bambini, e quindi sapevano che quella era la verità.
"La regina della neve può entrare qui?" chiese la bambina.
"Lascia che venga!" rispose il ragazzo. "La metto sulla stufa calda, così si scioglie."
Ma la nonna, carezzandogli i capelli, raccontava altre storie.
Di sera il piccolo Kay, già mezzo svestito, si arrampicò su una sedia vicino alla finestra e guardò fuori da quel piccolo buco, un paio di fiocchi di neve caddero là fuori e uno di questi, il più grande, restò posato sull'angolo di una delle cassette di fiori. Crebbe sempre più e alla fine si trasformò in una donna avvolta in sottilissimi veli bianchi che sembravano formati da milioni di fiocchi di neve brillanti come stelle. Era molto bella e fine, ma fatta di ghiaccio, di un ghiaccio splendente e brillante, eppure era viva; gli occhi osservavano come due chiare stelle, ma non c'era pace né tranquillità in loro. Fece cenno verso la finestra e salutò con la mano. Il bambino si spaventò e saltò giù dalla sedia, e allora fu come se là fuori volasse un grande uccello davanti alla finestra.
II giorno dopo tutto era gelato; poi venne il disgelo, e infine giunse la primavera, il sole splendette, il verde spuntò, le rondini costruirono i nidi, le finestre si aprirono e i bambini si ritrovarono nel loro piccolo giardino lassù vicino alla gronda del tetto sopra tutti gli altri piani.
Le rose quell'estate fiorirono meravigliose; la bambina aveva imparato un inno in cui si parlava di rose e arrivata a quel punto pensava alle sue; lo cantava insieme al ragazzino:
Le rose crescono nelle valli, laggiù parleremo con Gesù Bambino!
I piccoli si tenevano per mano, baciavano le rose e guardarono verso il sole di Dio parlando come se Gesù Bambino fosse stato là. Che belle giornate estive, come era bello stare fuori vicino a quei freschi roseti, che sembrava non volessero mai smettere di fiorire.
Kay e Gerda guardavano in un libro di figure immagini di animali e di uccelli, quando la campana batté proprio le cinque dal grande campanile, e Kay esclamò: "Ahi! Ho avuto una fitta al cuore, e mi è entrato qualcosa nell'occhio!".
La bambina gli prese il capo; lui sbatteva gli occhi, ma no, non si vedeva niente.
"Non credo che sia uscita" disse, ma non era così. Era proprio uno di quei granellini di vetro che si erano staccati dallo specchio, dallo specchio magico, ce lo ricordiamo quell'orribile specchio che rendeva tutte le cose grandi e buone che vi si specchiavano piccole e orribili, mentre le cose cattive e malvage risaltavano molto e di ogni cosa si vedevano subito i difetti. Povero Kay, anche lui aveva ricevuto un granello, proprio nel cuore. E il cuore gli sarebbe presto diventato di ghiaccio; ora non sentiva più male, ma il granello era sempre là.
"Perché piangi?" chiese. "Sei brutta quando piangi, e poi io non ho niente!" E improvvisamente gridò: "Uh! quella rosa è stata morsicata da un verme! E guarda: quell'altra è tutta storta! In fondo sono rose orribili! assomigliano alle cassette in cui si trovano!". E intanto col piede colpì duramente la cassetta e strappò due rose.
"Kay! che cosa fai?" gridò la bambina, e quando lui vide che lei si era spaventata, strappò un'altra rosa e corse via nella sua finestra, lontano dalla brava Gerda.
Quando poi lei arrivava col libro illustrato, lui diceva che era un passatempo per bambini, e quando la nonna raccontava le storie, lui interveniva sempre con un "Mah", e addirittura si metteva a camminare dietro di lei, si metteva i suoi occhiali e parlava proprio come la nonna; era bravissimo a imitarla e la gente rideva. Presto imparò a imitare la gente della strada. Tutto quello che c'era in loro di strano e brutto, Kay lo sapeva imitare, e così la gente diceva: "È proprio in gamba quel ragazzo!". Ma in realtà tutto accadeva per quel vetro che gli era entrato nell'occhio, quel vetro che gli stava sul cuore: per questo si comportava così, prendeva in giro persino la piccola Gerda, che gli voleva un bene dell'anima.
Ora i suoi passatempi erano ben diversi da quelli di prima erano molto seri: un giorno d'inverno, mentre nevicava forte arrivò con una grande lente di ingrandimento, sollevò fuori dalla finestra l'orlo della sua giacchetta blu e aspettò che i fiocchi di neve vi si posassero.
"Guarda in questa lente, piccola Gerda!" disse, e ogni fiocco di neve divenne molto grande e sembrò un meraviglioso fiore o una stella a dieci punte; era proprio meraviglioso.
"Vedi come è ben fatto!" disse Kay "è molto più interessante dei fiori veri. Non c'è neppure un difetto, sono tutti identici, se solo non si sciogliessero!"
Poco dopo ritornò con dei grossi guanti e con lo slittino sulla schiena, gridò nelle orecchie a Gerda: "Ho avuto il permesso di andare nella piazza grande dove giocano anche gli altri ragazzi!" e se n'era già andato.
Là nella piazza i ragazzi più arditi legavano i loro slittini ai carri dei contadini, così venivano trascinati per un bel pezzo: era molto divertente. Stavano giocando così quando giunse una grande slitta, tutta dipinta di bianco, dove sedeva una persona avvolta in una morbida pelliccia bianca e con un cappuccio in testa; la slitta fece due volte il giro della piazza e Kay vi legò svelto lo slittino, così si fece trascinare. Andò sempre più forte fino alla strada successiva; la persona che guidava voltò la testa e fece un cenno molto affettuoso a Kay, come se si conoscessero già; ogni volta che Kay voleva sciogliere il suo slittino quella gli faceva di nuovo cenno, e così Kay rimaneva seduto; corsero fino alla porta della città. Allora la neve cominciò a precipitare così fìtta che il fanciullo non poteva vedere a un palmo davanti a sé, mentre veniva trascinato via così sciolse velocemente il laccio per staccarsi dalla grande slitta, ma non servì a nulla, la sua piccola slitta rimase attaccata, e andava alla velocità del vento. Allora urlò forte, ma nessuno lo sentì e la neve continuava a cadere e la slitta continuava a correre, ogni tanto dava un balzo, era come se stesse passando sopra fossi o siepi. Kay era spaventatissimo, voleva recitare il Padre Nostro, ma riusciva solo a ricordare la tavola pitagorica.
I fiocchi di neve diventavano sempre più grandi, alla fine sembravano grosse galline bianche; improvvisamente la slitta balzò di lato, si fermò e la persona che la guidava si alzò; la pelliccia e il cappuccio erano fatti di neve, e lei era una dama, alta e snella, di un candore splendente, era la regina della neve.
"Abbiamo fatto un bel giro!" esclamò "ma che freddo! Riparati nella mia pelliccia di orso!" e se lo mise vicino sulla slitta e gli avvolse intorno la pelliccia, e a lui sembrò di affondare in una montagna di neve.
"Hai ancora freddo?" chiese, baciandolo sulla fronte. Oh! il bacio era più freddo del ghiaccio, e gli andò direttamente al cuore, che già era un pezzo di ghiaccio. Gli sembrò di morire. Ma solo per un attimo, poi si sentì bene; e non notò più il freddo tutt'intorno.
"Lo slittino? Non dimenticare il mio slittino!" fu la prima cosa che ricordò; lo slittino venne legato a una delle galline bianche, che seguivano volando la slitta della regina. La regina della neve diede un altro bacio a Kay e subito lui dimenticò la piccola Gerda e tutti quelli che erano a casa.
"Non ti darò più baci!" esclamò lei "altrimenti ti farei morire."
Kay la guardò: era così bella, un viso più bello e intelligente non lo avrebbe potuto immaginare; ora non sembrava più di ghiaccio, come quella volta che l'aveva vista fuori dalla finestra mentre gli faceva cenno: ai suoi occhi appariva perfetta, non sentì affatto paura, le raccontò che sapeva fare i calcoli a memoria, anche con le frazioni, che conosceva l'estensione in miglia quadrate dei vari paesi e il numero degli abitanti; lei continuava a sorridergli. Allora Kay pensò che non era abbastanza quello che conosceva, così guardò in alto, nel grande spazio dell'aria, e la regina volò con lui, volò in alto su una nera nuvola, mentre la tempesta infuriava e fischiava, sembrava che cantasse vecchie canzoni. Volarono sopra boschi e laghi, sopra giardini e paesi, sotto di loro soffiava il freddo vento, ululavano i lupi, la neve cadeva, sopra di loro volavano neri corvi gracchianti, ma sopra a tutto brillava la luna, grande e luminosa, e alla luna Kay guardò in quella lunghissima notte d'inverno; quando venne il giorno dormiva ai piedi della regina della neve.
Terza storia. Il giardino fiorito della donna che sapeva compiere magie
Ma come si sentì la piccola Gerda quando Kay non tornò più indietro? Dov'era finito? Nessuno lo sapeva, nessuno sapeva dare informazioni. I ragazzi raccontarono solo che lo avevano visto legare il suo slittino a una magnifica slitta che era passata per quella piazza e era poi uscita dalla porta della città. Nessuno sapeva dove fosse, molte lacrime scorsero, la piccola Gerda pianse profondamente e a lungo, poi dissero che era morto, che era affogato nel fiume che passava vicino alla città oh, furono proprio lunghi scuri giorni d'inverno.
Poi venne la primavera con il sole caldo.
"Kay è morto, è sparito" disse la piccola Gerda
"No, non lo credo!" rispose il sole.
"È morto, è sparito" lei diceva alle rondini.
"Non lo crediamo!" rispondevano loro, e alla fine non lo credette più nemmeno la piccola Gerda.
"Mi metterò le mie nuove scarpette rosse" disse una mattina "quelle che Kay non hai mai visto, e poi andrò al fiume a chiedere di lui."
Era molto presto, lei baciò la vecchia nonna che ancora dormiva, si mise le scarpette rosse e si diresse tutta sola fuori dalla città verso il fiume.
"È vero che hai preso il mio piccolo compagno di giochi? Ti regalerò le mie scarpette rosse se me lo renderai di nuovo."
Le sembrò che le onde facessero dei cenni molto strani; allora prese le scarpette rosse, quelle che le erano più care, e le gettò nel fiume, ma caddero vicino alla riva e le onde le riportarono immediatamente a terra. Sembrava che il fiume non volesse prendere la cosa più cara a Gerda, poiché non poteva restituirle il piccolo Kay; lei invece credette di non aver gettato le scarpe abbastanza al largo, così salì su una barchetta che si trovava tra le canne, avanzò fino alla prua, e da li gettò le scarpette, ma la barca non era legata bene e per quel movimento che lei fece si allontanò da terra; Gerda lo capì e subito cercò di scendere, ma prima che fosse tornata indietro la barca era già lontana più di un braccio dalla riva e ora galleggiava sempre più veloce.
La piccola Gerda si spaventò terribilmente e si mise a piangere; nessuno la udì eccetto i passeri, ma questi non la potevano riportare a terra; comunque volarono lungo la sponda e cantarono, come per consolarla: "Siamo qui! Siamo qui!". La barca seguiva la corrente; la piccola Gerda se ne stava seduta scalza: le sue scarpette rosse galleggiavano dietro la barca, ma non riuscivano a raggiungerla perché quella correva più veloce.
Le due sponde erano belle, con splendidi fiori, vecchi alberi e i pendii pieni di pecore e di mucche, ma non si vedeva neppure un uomo.
"Forse il fiume mi porterà dal piccolo Kay" pensò Gerda e così le tornò il buonumore, si alzò e guardò per molte ore le due belle rive verdi; poi giunse a un grande giardino di ciliegi dove si trovava una casetta con strane finestre rosse e blu e il tetto di paglia; due soldati di legno presentavano le armi a quanti passavano di lì in barca.
Gerda gridò verso di loro, credeva fossero vivi, ma loro naturalmente non risposero. Gli passò molto vicino, e il fiume spingeva la barchetta proprio verso terra.
Gerda gridò ancora più forte, così uscì dalla casa una donna vecchissima che si appoggiava a un bastone ricurvo; aveva in testa un grande cappello di paglia su cui erano dipinti i fiori più belli.
"Oh, povera bambina" esclamò la vecchia "come hai fatto a essere presa da questa forte corrente e venir trascinata così lontano nel vasto mondo!" e intanto entrava in acqua; afferrò col bastone ricurvo la barca, la portò a riva e sollevò la piccola Gerda.
Gerda era contenta di trovarsi all'asciutto, ma aveva un po' paura di quella vecchia sconosciuta.
"Vieni, raccontami chi sei e come sei arrivata qui" le disse la vecchia.
Gerda le raccontò ogni cosa e la vecchia scuoteva il capo e diceva: "Uhm! Uhm!". Quando Gerda, dopo aver narrato tutto, le chiese se per caso non aveva visto il piccolo Kay, la donna rispose che non era ancora passato di lì ma che sarebbe senz'altro venuto; quindi lei non doveva essere così triste, ma doveva assaggiare le sue ciliege e guardare i fiori che erano molto più belli di quelli dei libri illustrati, perché ognuno di loro sapeva raccontare un'intera storia. Prese Gerda per mano e entrarono nella casetta, e la vecchia chiuse la porta a chiave.
Le finestre erano molto alte e i vetri erano rossi, blu e gialli; la luce del giorno splendeva strana lì dentro con tutti i colori ma sul tavolo c'erano ciliege bellissime e Gerda ne mangiò quante volle, perché lì non aveva nessuna paura. Mentre lei mangiava, la vecchia le pettinava i capelli con un pettine d'oro, e i capelli si arricciavano e splendevano di un oro delizioso intorno al grazioso vi sino, che era rotondo e sembrava una rosa.
"Da tanto tempo desideravo una bambina così dolce!" esclamò la vecchia. "Vedrai come staremo bene insieme noi due" e mentre pettinava i capelli della piccola Gerda la bambina dimenticava sempre più Kay, il suo compagno di giochi, perché la vecchia sapeva fare magie, ma non era una maga cattiva, faceva magie solo per il suo divertimento, e ora voleva semplicemente trattenere presso di sé la piccola Gerda. Per questo uscì in giardino, tese il bastone ricurvo verso tutti i rosai che erano splendidamente fioriti, e questi sparirono tutti quanti nella terra nera e non si potè più capire dove stavano prima. La vecchia infatti temeva che Gerda, vedendo le rose, potesse pensare alle sue, e quindi ricordare il piccolo Kay e fuggire.
La vecchia condusse poi Gerda nel giardino fiorito. Che profumo, e che splendore! Tutti i fiori immaginabili, di ogni stagione, si trovavano lì, e tutti in fiore; nessun libro illustrato poteva essere più bello e più colorato. Gerda saltò di gioia e giocò finché il sole non scese dietro i grandi alberi di ciliegi, allora ebbe un delizioso lettino con le coperte di seta rossa, ricamate a violette azzurre; dormì e sognò beatamente, come nessuna regina avrebbe fatto neppure il giorno del suo matrimonio.
Il giorno dopo potè giocare ancora al sole, con i fiori, e così passarono molti giorni. Gerda conosceva ogni fiore, ma nonostante fossero molti, le sembrava che ne mancasse uno, però non sapeva quale.
Un giorno si mise a guardare il vecchio cappello di paglia della donna, con tutti quei fiori disegnati, e il più bello di questi era una rosa. La vecchia aveva dimenticato di farla sparire dal cappello, quando aveva seppellito le altre nella terra. Eh, non si può pensare sempre a tutto!
"Come!" esclamò Gerda "non c'è neppure una rosa?" Saltò tra le aiuole, cercò e cercò, ma non ne trovò nessuna, allora si sedette e cominciò a piangere, ma le sue calde lacrime caddero proprio dove un rosaio era stato seppellito. E quando quelle lacrime bagnarono la terra, il rosaio improvvisamente spuntò fuori, tutto in fiore proprio come quando era sprofondato, e Gerda lo abbracciò, baciò le rose e pensò a quelle splendide rose di casa sua e così pensò anche al piccolo Kay.
"Oh, quanto tempo ho perso!" disse la bambina. "Devo trovare Kay! Voi non sapete dove si trova?" chiese alle rose "credete che sia morto?"
"No, non è morto" risposero le rose. "Noi siamo state sotto terra, là si trovano tutti i morti, e Kay non c'era."
"Grazie!" disse la piccola Gerda, dirigendosi verso gli altri fiori; guardò nei loro calici e chiese: "Voi non sapete dove si trova il piccolo Kay?".
Ma ogni fiore si trovava al sole a sognare la sua favola o la sua storia, e la piccola Gerda ne sentì moltissime, ma nessuna le parlava di Kay.
Che cosa disse il giglio rosso?
"Senti il tamburo? bum! bum! ci sono solo due tonalità, sempre bum! bum! Senti il lamento di dolore delle donne? Senti il grido dei sacerdoti? Nel suo lungo mantello la donna indiana sta sul rogo, le fiamme avvolgono lei e il marito morto ma la donna indiana pensa a colui che vive, a colui i cui occhi bruciano il suo cuore più caldi delle fiamme che presto trasformeranno il suo corpo in cenere. Può la fiamma del cuore morire nella fiamma del rogo?"
"Io non capisco niente!" disse la piccola Gerda.
"È la mia storia!" disse il giglio rosso.
Che cosa dice il convolvolo?
"Là in fondo alla stretta strada di montagna si trova una antica rocca; la fitta edera verde cresce lungo i vecchi muri rossi, foglia dopo foglia, fino intorno al balcone, lì si trova una graziosa fanciulla che si affaccia oltre il parapetto e guarda verso la strada. Nessuna rosa che spunta tra i rami è più fresca di lei, nessun fiore di melo, che il vento porta via dall'albero, è più leggero di lei; come fruscia il suo magnifico mantello di seta! "Eppure lui non arriva!.""
"E Kay che intendi?" chiese la piccola Gerda.
Che cosa racconta la piccola primula?
"Legata agli alberi con due corde pende una lunga asse, è un altalena; due graziose fanciulle con abiti bianchi come la neve e lunghi nastri di seta verde legati tra i capelli, si dondolano; il fratello, che è più grande di loro, sta in piedi sull'altalena e si regge alla corda con il braccio, perché in una mano ha una piccola bacinella e nell'altra una cannuccia di gesso, con cui soffia le bolle di sapone. L'altalena va, e le bolle volano splendide nei loro colori cangianti; l'ultima è ancora attaccata alla cannuccia e si piega al vento; l'altalena va. Il cagnolino nero, leggero come le bolle, si solleva sulle zampe posteriori e vuol salire anche lui sull'altalena, questa vola, il cane cade, abbaia e si arrabbia; rimane con un palmo di naso le bolle scoppiano. Un'asse che dondola, un'immagine fatta di schiuma che scoppia, questa è la mia canzone!"
"Può darsi che sia bello quello che racconti, ma lo dici con una tale tristezza e non parli affatto di Kay."
Che cosa dicono i giacinti?
"C'erano una volta tre bellissime sorelle, pallide e sottili, una vestita di rosso, un'altra di blu e la terza di bianco, danzavano tenendosi per mano vicino al tranquillo laghetto al chiaro di luna. Non erano fanciulle degli elfi, erano figlie degli uomini. C'era un profumo così dolce, e le fanciulle sparirono nel bosco. Il profumo diventò sempre più intenso, tre bare in cui giacevano le graziose fanciulle si staccarono dal fitto del bosco verso il lago; le luminose lucciole volavano tutt'intorno, come piccole deboli luci. Dormono le fanciulle danzanti, o sono morte? Il profumo dei fiori dice che sono cadaveri; la campana della sera suona per i morti."
"Mi rendi così triste!" disse la piccola Gerda. "Hai un profumo così forte; mi fai pensare alle fanciulle morte. Ah, allora anche il piccolo Kay è ormai morto? Le rose sono state giù nella terra e dicono di no."
"Din, din, dan, dan!" suonarono le campane dei giacinti. "Noi non suoniamo per il piccolo Kay, non lo conosciamo neppure! Noi cantiamo solo la nostra canzone, l'unica che conosciamo!"
Gerda s'incamminò verso il ranuncolo, che brillava tra le verdi foglie luccicanti.
"Tu sei un piccolo sole chiaro" gli disse. "Dimmi se sai dove posso trovare il mio compagno di giochi!"
E il ranuncolo brillò così delizioso guardando verso Gerda.
Quale canzone poteva cantare il ranuncolo? Neppure la sua parlava di Kay.
"In un piccolo cortile brillava il sole di Nostro Signore così caldo nel primo giorno di primavera; i raggi cadevano lungo la bianca parete della casa del vicino ai cui piedi crescevano i primi fiori gialli, brillando come d'oro ai caldi raggi del sole; la vecchia nonna era fuori sulla sua seggiola, la nipotina, una graziosa ma povera servetta, venne a casa per una breve visita, e baciò la nonna. C'era oro, l'oro del cuore in quel bacio benedetto. Oro sulla bocca, oro nel fondo del cuore, oro quassù nelle prime ore del mattino! Ecco questa è la mia piccola storia!" disse il ranuncolo.
"La mia povera vecchia nonna!" sospirò Gerda. "Certamente ha nostalgia di me, è triste per me, come lo era stata per il piccolo Kay, ma io tornerò presto a casa, e porterò Kay con me. Non serve a nulla che io chieda ai fiori, loro conoscono solo le loro canzoni, non mi danno notizie." Così si rimboccò il vestitino per correre più in fretta; ma il narciso le colpì una gamba, mentre lei gli saltava sopra; allora si fermò, guardò quel lungo stelo giallo e chiese: "Tu sai forse qualcosa?" e gli si chinò sopra fino a toccarlo.
Che cosa disse il narciso?
"Io posso vedermi, io posso vedermi!" disse. "Oh, come profumo! Su nella piccola soffitta, mezza svestita, si trova una piccola ballerina, lei sta in piedi alcune volte su una gamba sola, a volte su due, tira calci a tutto il mondo; ma è solo un'illusione. Versa l'acqua della teiera su un pezzo di stoffa che tiene in mano, è il suo corpettino. La pulizia è una buona cosa! Anche l'abitino bianco che tiene appeso al gancio viene lavato nell'acqua della teiera e poi messo a asciugare sul tetto; lei lo indossa, con un fazzoletto giallo come lo zafferano intorno al collo, così l'abitino sembra ancora più bianco. Gamba in aria! Guarda come si regge su un piedino! Io posso vedermi! Io posso vedermi!"
"Non mi interessa nulla!" esclamò Gerda "non sono cose da raccontare a me!" e intanto se ne corse verso la siepe del giardino.
Il cancello era chiuso, ma lei rimosse il gancio arrugginito che si staccò, così la porta si aprì e lei corse a piedi nudi nel vasto mondo. Per tre volte si guardò indietro, ma nessuno la rincorreva; alla fine non potè più correre e sedette su una grande pietra, si guardò intorno, l'estate era passata, era già autunno inoltrato, ma non lo si notava nel bel giardino dove brillava sempre il sole e si trovavano i fiori di tutte le stagioni.
"Oh, Signore, come ho fatto tardi!" esclamò la piccola Gerda. "È già autunno: ora non posso neppure riposarmi!" e si alzò per ripartire.
Oh, come erano stanchi e doloranti i suoi piedini, e che freddo e che tristezza c'era tutt'intorno; le lunghe foglie dei salici erano tutte gialle, stillanti di brina; una foglia cadeva dopo l'altra, solo il susino aveva ancora i frutti, ma così amari che legavano i denti. Oh, com'era grigio e triste il vasto mondo!
Quarta storia. Il principe e la principessa
Gerda dovette riposarsi di nuovo; allora una grossa cornacchia saltellò sulla neve proprio davanti a lei; rimase seduta a lungo osservandola e scuotendo la testa, poi disse: "Cra, era! Buon dì, Buon dì!"; meglio non riuscì a dirlo, ma era ben disposta verso la fanciulla e le chiese come mai se ne andasse tutta sola nel vasto mondo. La parola: sola, Gerda la capì molto bene e sentì tutto quello che significava; così raccontò alla cornacchia tutta la sua vita e le chiese se non avesse visto Kay.
La cornacchia mosse la testa pensierosa e disse: "Può essere! Può essere!".
"Lo credi?" gridò la piccola Gerda e si mise a baciarla con tale foga che quasi la stava uccidendo.
"Piano, piano!" disse la cornacchia. "Credo che possa essere il piccolo Kay, ma sicuramente ora ti ha dimenticato per la principessa!"
"Abita presso una principessa?" chiese Gerda.
"Sì, ascolta!" disse la cornacchia. "Ma io ho difficoltà a parlare la tua lingua; se tu capissi il linguaggio delle cornacchie, potrei raccontartelo meglio."
"No, non l'ho imparato" esclamò Gerda "ma la nonna lo sapeva parlare, e sapeva anche il linguaggio dei neonati. Se solo l'avessi imparato anch'io!"
"Non importa!" disse la cornacchia "racconterò meglio che posso, ma certo mi verrà male" e così raccontò quello che sapeva.
"In questo regno, dove ci troviamo ora, abita una principessa straordinariamente intelligente; legge tutti i giornali che ci sono al mondo e poi li dimentica di nuovo, tanto è intelligente. Un giorno, mentre sedeva sul trono, che non è una cosa molto divertente, si mise a canticchiare una canzone che diceva così: "Perché non dovrei sposarmi?." - "Ecco è proprio un'idea!" esclamò, e così si volle sposare, ma voleva avere un marito che sapesse rispondere quando lei gli avesse rivolto la parola, uno che non se ne stesse lì fermo e ben distinto, perché è molto noioso. Allora riunì tutte le dame di corte e quando queste sentirono che cosa voleva, si dimostrarono molto contente. "Molto bene!" dissero "l'altro giorno pensavamo proprio a questo." Puoi credere a ogni parola che ti dico!" soggiunse la cornacchia. "Ho una fidanzata addomesticata, che abita al castello, e mi ha raccontato tutto lei."
La sua fidanzata era naturalmente anche lei una cornacchia; perché ogni cornacchia cerca il suo simile, che è una cornacchia.
"Subito uscirono i giornali con il bordo pieno di cuori, e con il simbolo della principessa; ci si poteva leggere che ogni giovane di bell'aspetto era libero di andare al castello e di parlare con la principessa, e chi avesse parlato completamente a suo agio, e meglio di tutti, sarebbe stato prescelto dalla principessa! Sì, sì" disse la cornacchia "puoi credermi, è proprio vero, come il fatto che noi stiamo qui; la gente accorreva, ci fu un gran movimento e una gran folla! Ma la faccenda non si risolse, né il primo giorno, né il secondo. Tutti sapevano parlare bene, quando si trovavano per strada, ma non appena entravano nel portone del castello e vedevano la guardia vestita d'argento e su per le scale e i valletti vestiti d'oro, e le grandi sale illuminate, allora si confondevano. Così si trovavano davanti al trono dove stava la principessa, e non sapevano dire nulla se non l'ultima parola che lei aveva detto, e a lei naturalmente non interessava risentirla! Era come se la gente lì dentro avesse ingerito del tabacco e fosse caduta in letargo, finché non usciva di nuovo sulla strada, allora sapeva parlare! C'era una fila che andava dalle porte della città fino al castello. Io stesso ero lì a vedere!" raccontò la cornacchia. "Tutti avevano fame e sete, ma dal castello non ebbero neppure un bicchiere d'acqua tiepida, certo qualcuno dei più intelligenti s'era portato dei panini da casa, ma non li divise con i vicini, perché pensava: "Se questo sembra affamato, la principessa non lo sceglierà!.""
"Ma Kay, il piccolo Kay?" chiese Gerda "quando arriva? Era tra tutti gli altri?"
"Dammi tempo, dammi tempo! Adesso arriviamo anche a lui. Era il terzo giorno quando arrivò una personcina senza cavallo e senza carrozza, che marciava ardita verso il castello, i suoi occhi brillavano come i tuoi, aveva lunghi capelli bellissimi, ma aveva vestiti molto poveri."
"Era Kay!" gridò Gerda felice. "Ah, allora l'ho trovato!" e si mise a battere le mani.
"Aveva un fagotto sulle spalle!" aggiunse la cornacchia
"No, era certo lo slittino" spiegò Gerda "perché se ne era andato con la slitta."
"È possibile" disse la cornacchia. "Io non ho guardato attentamente. Ma so dalla mia fidanzata che quando arrivò alla porta del castello e vide la guardia vestita d'argento e poi lungo le scale i valletti vestiti d'oro, non restò affatto imbarazzato: fece un cenno e disse: "Dev'essere noioso restare lì sulle scale, io preferisco entrare." Le sale splendevano per le candele; i consiglieri e i ministri camminavano a piedi nudi e portavano vassoi d'oro: c'era di che restare imbarazzati! I suoi stivali scricchiolavano terribilmente, ma lui non aveva timore!"
"È sicuramente Kay!" disse Gerda. "So che aveva gli stivali nuovi, li ho sentiti scricchiolare nella camera della nonna."
"Ah, sì, scricchiolavano davvero!" disse la cornacchia. "Ma lui se ne andò tranquillamente dalla principessa, che sedeva su una perla grande come la ruota di un fuso; tutte le dame di corte con le loro cameriere e con le cameriere delle cameriere, e tutti i cavalieri con i loro servitori e con i servitori dei servitori, che avevano con loro i paggi, se ne stavano impalati tutt'intorno; e più erano vicini alla porta, più apparivano pieni di superbia. Il paggio del servitore dei servitori, che va sempre in giro in pantofole, non lo si poteva quasi guardare, tanto se ne stava fiero vicino alla porta!"
"Deve essere orribile!" esclamò la piccola Gerda. "E Kay? Ha sposato la principessa?"
"Se non fossi stato una cornacchia, l'avrei sposata io, anche se sono già fidanzato. Deve aver parlato molto bene, come parlo io nella lingua delle cornacchie: questo mi ha raccontato la mia fidanzata. Era proprio audace e grazioso; non era venuto per chiedere la mano della principessa; ma solo per sentire la sua intelligenza, e la trovò eccezionale, come lei trovò eccezionale lui."
"Di certo era Kay!" disse Gerda. "Era così intelligente: sapeva fare i conti a memoria con le frazioni! Oh, non mi puoi far entrare nel castello?"
"Già, è facile a dirsi!" disse la cornacchia. "Ma come possiamo fare? Devo parlarne alla mia cara fidanzata; lei ci saprà consigliare bene; perché, questo te lo devo dire, una bambina come te non avrà mai il permesso di entrare ufficialmente."
"Sì che lo avrò" rispose Gerda. "Quando Kay saprà che sono qui, verrà senz'altro fuori a prendermi."
"Aspettami là vicino a quel varco!" disse la cornacchia, e scuotendo il capo volò via.
La cornacchia tornò quando già era venuto buio. "Cra, era era!" disse. "Devo salutarti da parte della mia fidanzata. E qui c'è un panino per te. L'ha preso in cucina, ce n'è tanto di pane e tu sei sicuramente affamata. Non è possibile che tu entri nel castello: sei a piedi nudi e la guardia vestita d'argento e i valletti vestiti d'oro non te lo permetterebbero. Ma non piangere, entrerai ugualmente. La mia fidanzata conosce una piccola entrata sul retro, che conduce alla camera da letto, e lei sa bene dove prendere le chiavi."
Entrarono nel giardino per il grande viale, dove le foglie cadevano una dopo l'altra, e quando al castello le luci si spensero a una a una, la cornacchia condusse la piccola Gerda a una porta sul retro che era socchiusa.
Oh, come batteva il cuore di Gerda per la paura e per la nostalgia! Era come se stesse facendo qualcosa di male, ma in realtà voleva solo sapere se si trattava del piccolo Kay. Certo, doveva essere lui, e Gerda ricordò i suoi occhi intelligenti, i suoi lunghi capelli; le sembrava proprio di vederlo sorridere, come quando erano a casa sotto le rose. Lui sarebbe certamente stato contento di vederla e di sentire che lungo cammino aveva percorso per ritrovarlo e come tutti a casa erano stati tristi quando lui non era ritornato. Oh, era paura e gioia insieme.
Ora si trovavano sulla scala; su un armadio brillava una piccola lampada. In mezzo al pavimento stava la cornacchia domestica che girava la testa da tutte le parti e osservava Gerda fare l'inchino proprio come le aveva insegnato la nonna.
"Il mio fidanzato ha parlato così bene di voi, mia piccola signorina!" disse la cornacchia domestica. "Il vostvocurriculum vitae , come si dice, è molto commovente! Se prenderete la lanterna, vi precederò. Faremo la strada più diretta, perché non incontreremo nessuno."
"Mi sembra che qualcuno ci stia seguendo" disse Gerda. Qualcosa al suo fianco fischiava; era come se ci fossero ombre sulle pareti, cavalli con le criniere svolazzanti e le zampe snelle, giovani cacciatori, dame e signori sui cavalli.
"Sono solo sogni!" disse la cornacchia. "Vengono a prendere i pensieri delle Loro Maestà per portarli a caccia, e è un bene, così voi potrete osservarli meglio nei loro letti. Ma speriamo che se arriverete a ottenere onori e riconoscimenti, mostrerete un cuore riconoscente."
"Non si deve parlare di queste cose!" esclamò la cornacchia del bosco.
Poi entrarono nel primo salone, che era tappezzato di raso rosa a fiori, qui i sogni passarono fischiando, ma se ne andarono così in fretta che Gerda non riuscì a vedere le Loro Maestà. I saloni erano uno più bello dell'altro, davvero c'era da rimanere stupefatti; ora si trovavano nella camera da letto. Il soffitto là dentro somigliava a una grossa palma con foglie di vetro, di un vetro prezioso, e in mezzo al pavimento erano appesi a un grosso stelo d'oro due letti, che sembravano gigli; uno era bianco e vi si trovava la principessa; l'altro era rosso, e era quello dove Gerda doveva cercare il piccolo Kay. Sollevò uno dei petali rossi e vide una nuca bruna: oh, era certo Kay! Gridò a voce alta il suo nome e gli avvicinò la lampada. I sogni a cavallo fuggirono dal salone; il principe si svegliò, voltò il capo... oh, non era il piccolo Kay!
Gli assomigliava soltanto per la nuca, ma era anche lui giovane e bello. Dal letto bianco a forma di giglio si affacciò la principessa e chiese che cosa stesse succedendo. Allora la piccola Gerda si mise a piangere e raccontò tutta la sua storia e tutto quello che le cornacchie avevano fatto per lei.
"Oh poverina!" esclamarono il principe e la principessa e lodarono le cornacchie, dicendo che non erano affatto in collera con loro, ma che naturalmente non avrebbero più dovuto farlo. Per quella volta avrebbero ricevuto una ricompensa.
"Volete volare libere?" chiese la principessa "oppure volete avere un incarico fisso come cornacchie di corte con il diritto di mangiare tutto quello che avanza in cucina?"
Entrambe le cornacchie s'inchinarono e scelsero l'impiego fisso; pensavano alla vecchiaia e si dissero che era un bene avere qualcosa per i giorni bui, come si usa dire.
Il principe si alzò dal letto e vi fece dormire Gerda, ma di più non poteva fare. Lei giunse le manine e pensò: "Come sono buoni gli uomini e gli animali!" e così chiuse gli occhi e dormì tranquillamente. Tutti i sogni rientrarono volando, e apparivano ora come angeli del Signore: trascinavano una piccola slitta dove sedeva Kay che salutava. Ma era solo un sogno, e quando Gerda si risvegliò era tutto sparito di nuovo.
Il giorno dopo venne rivestita da capo a piedi di seta e di velluto, le venne offerto di rimanere al castello con un futuro assicurato, ma lei chiese solo di poter avere una piccola carrozza con un cavallo e un paio di stivaletti, così da poter viaggiare di nuovo nel vasto mondo in cerca di Kay.
Ottenne stivaletti e manicotto: era molto graziosa vestita così, e quando volle partire si fermò davanti alla porta una carrozza nuova di oro puro con lo stemma del principe e della principessa lucente come una stella; il postiglione, i servitori, e i valletti a cavallo - perché c'erano anche i valletti a cavallo - avevano in testa corone d'oro. Il principe e la principessa aiutarono la piccola a salire sulla carrozza e le augurarono ogni bene. La cornacchia del bosco, che ora si era sposata, la seguì per le prime tre miglia: sedeva vicino a lei perché non sopportava di viaggiare dietro; l'altra cornacchia rimase al portone e sbatté le ali: non li seguì perché soffriva di mal di testa da quando aveva un impiego fìsso e troppo da mangiare. Nella carrozza si trovavano croccanti di zucchero, e sul sedile avevano messo frutta e panpepato.
"Addio! Addio!" gridarono il principe e la principessa, e la piccola Gerda pianse, e anche la cornacchia pianse, così passarono le prime miglia, poi anche la cornacchia salutò e questo fu il congedo più doloroso. Volò in alto, su un albero, e sbatté le ali nere finché potè vedere la carrozza, che luccicava come il sole.
Quinta storia. La figlia del brigante
Viaggiarono attraverso i boschi scuri, ma la carrozza brillava come una fiamma, e abbagliava gli occhi dei briganti, che non riuscivano a sopportarla.
"È oro, è oro!" gridarono, avanzando di corsa, presero i cavalli, uccisero il postiglione, i valletti e i servitori, e tirarono fuori la piccola Gerda dalla carrozza.
"È grassa, è graziosa, è stata ingrassata con gheriglio di noci!" disse la vecchia moglie del brigante, che aveva una lunghissima barba arricciata e sopracciglie che le coprivano gli occhi. "Deve essere buona come un agnellino! Uh, deve essere saporita!" e intanto tirò fuori il coltello che scintillò orribilmente. "Ahi!" esclamò in quello stesso momento.
Era stata morsicata all'orecchio dalla figlioletta, che s'era appesa alla sua schiena e che era terribilmente selvaggia e insolente.
"Mocciosa!" esclamò la madre, ma non fece in tempo a colpire Gerda.
"Deve giocare con me!" disse la figlia del brigante. "Mi deve dare il suo manicotto, i suoi bei vestiti, e dormirà nel mio letto!" e così diede un altro morso cosicché la moglie del brigante saltò in aria e girò su se stessa e tutti i briganti si misero a ridere dicendo: "Guarda come balla con sua figlia!".
"Voglio andare in carrozza!" disse la figlia del brigante, e riuscì a ottenere quello che voleva perché era molto ostinata e viziata.
Lei e Gerda salirono in carrozza e corsero oltre sterpi e rovi fino nel più profondo del bosco. La figlia del brigante era grande come Gerda, ma molto più forte, più robusta e con la pelle scura, aveva gli occhi neri che sembravano quasi tristi. Afferrò la piccola Gerda alla vita e le disse: "Non ti uccideranno finché io non mi arrabbierò con te! Sei forse una principessa?".
"No" rispose la piccola Gerda, e le raccontò tutto quello che aveva vissuto, e quanto volesse bene al piccolo Kay.
La figlia del brigante la guardò molto seriamente, fece un cenno con la testa e disse: "Non ti ammazzeranno, anche se io mi arrabbierò con te, perché lo farò io stessa!". Intanto asciugò gli occhi di Gerda e infilò le mani nel bel manicotto così morbido e caldo.
La carrozza si fermò. Si trovava in mezzo al cortile di un castello di briganti; tutto era decrepito, da cima a fondo, corvi e cornacchie uscivano volando da tutti i fori, e grandi mastini, che sembrava potessero mangiare un uomo, saltavano in aria, ma non abbaiavano perché era proibito.
Nella grande vecchia sala annerita dal fumo si trovava in mezzo al pavimento di pietra un grosso fuoco; il fumo saliva verso il soffitto e doveva trovare da sé un'uscita; in un grande pentolone cuoceva la zuppa e sullo spiedo giravano conigli e lepri.
"Dormirai con me questa notte e con tutti i miei animaletti!" disse la figlia del brigante. Mangiarono e bevvero e poi andarono in un angolo dove si trovavano paglia e coperte. Un po' più in alto, su pertiche e assicelle, erano appollaiati quasi cento colombi: sembrava che dormissero, ma si mossero un po' quando le bambine arrivarono.
"Sono tutti miei" disse la figlia del brigante, e afferrò in fretta uno dei più vicini, tenendolo poi per le zampe e agitandolo, in modo che sbattesse le ali. "Bacialo!" gridò, sbattendoglielo sulla faccia. "Là ci sono i miei colombi selvatici!" continuò indicando le sbarre che chiudevano un buco nel muro. "Sono colombi selvatici quei due! Se ne volerebbero subito via, se non fossero chiusi a chiave. E qui si trova la mia carissima renna" e tirò per le corna una renna, che aveva un anello di rame luccicante intorno al collo e era legata. "Anche questa deve stare in gabbia, altrimenti scappa via. Ogni sera le faccio il solletico sotto il collo con il mio coltello affilato e lei ha così paura!" e prese un lungo coltello da una fessura del muro e lo fece scorrere sul collo della renna; quel povero animale si mise a tirar calci, e la figlia del brigante rise forte e trascinò Gerda con sé nel letto.
"Tieni il coltello con te anche quando dormi?" chiese Gerda guardandolo un po' impaurita.
"Dormo sempre col coltello!" rispose la figlia del brigante. "Non si sa mai quello che può succedere. Ma raccontami di nuovo quello che mi hai detto prima sul piccolo Kay e su come sei andata in giro per il vasto mondo." Gerda raccontò dal principio, e i colombi selvatici tubavano nella gabbia, mentre gli altri dormivano. La figlia del brigante mise il braccio intorno al collo di Gerda, tenendo il coltello nell'altra mano, e dormì facendo molto rumore; Gerda invece non riuscì affatto a chiudere gli occhi, non sapeva se sarebbe vissuta o se sarebbe morta. I briganti erano seduti intorno al fuoco, cantavano e bevevano, e la moglie del brigante faceva le capriole. Oh, era orribile a vedersi per la piccola Gerda.
Allora i colombi del bosco dissero: "Curri Curri noi abbiamo visto il piccolo Kay. Una gallina bianca portava la sua slitta, lui era seduto nella carrozza della regina della neve, che passava bassa sul bosco quando noi eravamo nel nido, faceva tanto vento che tutti i piccoli morirono, tranne noi due. Curr! Curri".
"Cosa dite lassù?" gridò Gerda "dove si è diretta la regina della neve? Sapete qualcosa?"
"È sicuramente andata in Lapponia, perché là c'è sempre neve e ghiaccio. Prova a chiedere alla renna, che è qui legata alla corda."
"C'è ghiaccio e neve, là si sta molto bene!" rispose la renna. "Là si salta liberamente nelle grandi vallate che brillano! Là si trova la tenda estiva della regina della neve, ma il suo castello si trova vicino al Polo Nord, su di un'isola che si chiama Spitzberg!"
"Oh Kay, piccolo Kay!" sospirò Gerda.
"Stai un po' ferma!" disse la figlia del brigante "altrimenti ti caccio il coltello nello stomaco!"
Al mattino Gerda raccontò tutto quello che i colombi selvatici le avevano detto, e la figlia del brigante diventò seria, ma piegò la testa dicendo: "È lo stesso, è lo stesso! Tu sai dove si trova la Lapponia?" chiese alla renna.
"Chi dovrebbe saperlo meglio di me?" rispose l'animale, e i suoi occhi brillavano di gioia "là sono nata e cresciuta, là ho saltato sui campi di neve!"
"Ascolta!" disse la figlia del brigante a Gerda. "Vedi, tutti i nostri uomini sono andati via, ma la mamma è ancora qui, e qui resta; ma quando comincia il giorno si mette a bere da quel grosso bottiglione e poi fa un pisolino; a quel punto farò qualcosa per te!" Intanto saltò giù dal letto, si precipitò al collo della madre, le tirò i baffi e disse: "Mio caro caprone, buon giorno!". E la madre le pizzicò il naso finché non divenne rosso e blu, ma erano tutte manifestazioni di affetto.
Quando la madre, bevuta la sua bottiglia, si mise a riposare, la figlia del brigante andò dalla renna e disse: "Mi piacerebbe tanto continuare a farti il solletico molte altre volte con il mio coltello affilato, perché sei così divertente, ma non importa, scioglierò la corda e ti aiuterò a fuggire in modo che tu possa tornare in Lapponia; ma tu dovrai correre più forte che potrai, e portare questa fanciulla al castello della regina della neve dove si trova il suo compagno di giochi. Hai sentito quello che lei ha raccontato, perché ha parlato a voce alta, e tu ascolti sempre!".
La renna saltò di gioia. La figlia del brigante aiutò la piccola Gerda a salire in groppa, fu attenta a legarla ben stretta e le diede persino un cuscino su cui sedere. "Eccoti i tuoi stivaletti di pelo" esclamò "perché là farà freddo, ma il manicotto lo tengo io perché è troppo grazioso! Comunque anche tu non devi gelare, eccoti i guantoni di mia madre, ti arriveranno certo fino al gomito, infilali. Adesso hai le mani proprio come quelle della mia brutta mamma!"
Gerda pianse di gioia.
"Non mi piace che tu pianga!" disse la figlia del brigante. "Adesso devi apparire contenta! Eccoti due pani e un prosciutto, così non avrai fame." Li sistemò sul dorso della renna, aprì la porta, rinchiuse tutti i cani e tagliò la corda col coltello, dicendo alla renna: "Corri, su! Ma stai bene attenta alla bambina".
Gerda tese le mani con i guantoni verso la figlia del brigante e salutò e la renna partì passando sopra cespugli e sterpi, attraverso il grande bosco, oltre steppe e paludi, più in fretta che potè. I lupi ululavano e le cornacchie gridavano. "Fut fut!" si sentì un crepitio nel cielo, che si illuminò tutto di rosso.
"Ecco la mia cara aurora boreale!" disse la renna "guarda come brilla!" e corse ancora più in fretta, giorno e notte; i pani vennero mangiati, e anche il prosciutto, ma intanto erano giunte in Lapponia.
Sesta storia. La donna di Lapponia e la donna di Finlandia
Si fermarono vicino a una casetta, misera misera; il tetto scendeva fino a terra e la porta era così bassa che la famiglia per entrare doveva strisciare a terra. Non c'era nessuno in casa eccetto una vecchia donna della Lapponia, che stava friggendo del pesce su una lampada a olio di balena, la renna raccontò tutta la storia di Gerda, ma prima la sua, perché pensava che fosse importante, e Gerda era così infreddolita che non riusciva a parlare.
"Ah, poveretti!" disse la donna della Lapponia "allora dovete viaggiare ancora a lungo! Dovete percorrere più di cento miglia fino in Finlandia, perché la regina della neve si trova in vacanza là; e ogni notte accende grandi fuochi azzurri. Scriverò un messaggio su un baccalà secco, dato che non ho carta, e voi dovrete portarlo alla donna di Finlandia, che troverete lassù, così lei potrà darvi informazioni migliori."
Così, quando Gerda si fu scaldata e ebbe mangiato e bevuto la donna di Lapponia scrisse due righe su un baccalà secco, disse a Gerda di non perderlo, legò di nuovo la fanciulla alla renna e questa partì. "Fut! Fut! Fut!" si sentiva nell'aria, e per tutta la notte brillò la splendida aurora boreale, alla fine giunsero in Finlandia e bussarono al camino della donna di Finlandia, dato che non c'era neppure una porta.
Là dentro faceva talmente caldo, che la donna di Finlandia andava in giro quasi nuda; era piccolina e molto sporca; tolse subito i vestiti alla piccola Gerda, le tolse i guanti e gli stivali perché altrimenti avrebbe sofferto troppo caldo, poi mise sulla testa della renna un pezzo di ghiaccio e finalmente lesse quello che c'era scritto sul baccalà secco; lo lesse tre volte in modo da saperlo a memoria, poi gettò il pesce nella pentola del cibo, perché si poteva mangiare e lei non sprecava mai nulla.
Infine la renna raccontò prima la sua storia e poi quella della piccola Gerda, e la donna di Finlandia strizzò gli occhi senza dire nulla.
"Tu sei così intelligente" disse la renna. "So che sei in grado di legare tutti i venti del mondo con un filo da cucire; quando il navigatore scioglie un nodo, riceve un buon vento, se ne scioglie un altro, allora il vento si fa più forte; se poi scioglie anche il terzo e il quarto, allora c'è tempesta e i boschi vengono sradicati. Non vuoi dare a questa bambina una bevanda in modo che abbia la forza di dodici uomini e possa vincere la regina della neve?"
"La forza di dodici uomini" disse la donna di Finlandia "a cosa servirebbe?" Poi andò a un ripiano e prese una grande pelle arrotolata e la srotolò: c'erano strane lettere sopra, e la donna di Finlandia lesse finché il sudore non le colò dalla fronte.
Ma la renna chiese di nuovo qualcosa per la piccola Gerda e Gerda stessa volse verso la donna di Finlandia uno sguardo così implorante, pieno di lacrime, e questa ricominciò di nuovo a strizzare gli occhi, poi portò la renna in un angolo dove le sussurrò qualcosa mentre le metteva del ghiaccio fresco sulla testa:
"Il piccolo Kay è veramente presso la regina della neve e trova tutto di suo piacimento e crede che quella sia la parte più bella del mondo, ma tutto questo è accaduto perché gli sono caduti una scheggia di vetro nel cuore e un granellino di vetro in un occhio, prima questi devono essere estratti, altrimenti non diventerà mai un uomo e la regina della neve manterrà il potere su di lui."
"Ma tu non puoi dare qualcosa alla piccola Gerda, in modo che lei possa avere potere su tutto?"
"Io non posso darle una forza più grande di quella che già ha! Non vedi quanto è grande? Non vedi come gli uomini e gli animali la servono, e quanto ha camminato nel mondo con le sue sole gambe? Non deve avere da noi il potere: il potere si trova nel suo cuore perché è una fanciulla dolce e innocente Se lei stessa non riesce a arrivare dalla regina della neve e a togliere il vetro dal piccolo Kay, noi non possiamo aiutarla! A due miglia da qui comincia il giardino della regina della neve, tu devi portare fino a lì la fanciulla, e metterla vicino a un grande cespuglio di bacche rosse che si trova tra la neve; ma non star lì a chiacchierare a lungo e affrettati a tornare indietro!" e così dicendo mise la piccola Gerda sulla renna, che cominciò a correre più forte che potè.
"Oh non ho preso gli stivali! e nemmeno i guanti!" gridò la piccola Gerda; lo notava solo adesso per il freddo pungente, ma la renna non osava fermarsi e corse finché non giunse al grande cespuglio con le bacche rosse; lì fece scendere Gerda, la baciò sulla bocca, e grandi lacrime lucenti scesero sulle guance dell'animale, poi corse via più in fretta che potè. La povera Gerda si trovò lì senza scarpe e senza guanti in mezzo alla terribile e fredda Finlandia.
Corse avanti più in fretta che potè, poi giunse un intero reggimento di fiocchi di neve, ma questi non cadevano dal cielo, che era limpido e brillava per l'aurora boreale; i fiocchi di neve correvano proprio lungo la terra e più si avvicinavano, più diventavano grandi; Gerda si ricordava bene quanto grossi e meravigliosi le erano sembrati quella volta che li aveva visti attraverso la lente d'ingrandimento, ma qui erano grandi e terribili in un altro modo, erano vivi, erano l'avanguardia della regina della neve e avevano le forme più strane; alcuni sembravano orribili e grossi porcospini, altri apparivano come serpenti raggomitolati con la testa ritta, altri ancora come piccoli grassi orsi dal pelo irto, ma tutti erano di un bianco splendente, tutti erano fiocchi di neve vivi.
Allora la piccola Gerda recitò il Padre Nostro, il freddo era così forte che riusciva a vedere il suo respiro in una nuvoletta di fumo che usciva dalla bocca; poi si fece sempre più denso e si trasformò in piccoli angeli trasparenti che crescevano sempre di più toccando la terra. Tutti avevano l'elmo in capo e una spada e lo scudo ai fianchi; divennero sempre più numerosi, e quando Gerda ebbe finito il Padre Nostro, ce n'era una intera legione intorno a lei. Colpirono con le spade gli orribili fiocchi di neve fino a romperli in mille pezzi, così la piccola Gerda potè avanzare sicura e piena di coraggio. Gli angeli le toccavano i piedi e le mani in modo che lei sentisse meno il freddo, e arrivò così al castello della regina della neve.
Ma adesso dobbiamo prima vedere come stava Kay. Kay non pensava affatto alla piccola Gerda e ancora meno pensava che lei fosse alle porte del castello.
Settima storia. Che cosa era successo nel castello della regina della neve e che cosa accadde in seguito
Le pareti del castello erano formate dalla neve che cadeva, le finestre e le porte dai venti che soffiavano; c'erano più di cento saloni, secondo la forma che prendeva la neve caduta; il più grande si allungava per molte miglia, tutti erano illuminati dall'aurora boreale e erano grandi, vuoti, gelati, luminosi. L'allegria non arrivava mai, mai c'era stato un ballo di orsacchiotti dove la tempesta potesse intonare la musica, e gli orsi camminare sulle zampe posteriori e comportarsi in modo distinto, mai c'erano stati giullari che facessero ballare gli orsi polari; mai una riunione per bere il caffè con le bianche signore volpi, tutto era vuoto, enorme e gelato nelle sale della regina della neve. Le aurore boreali brillavano con tanta regolarità che si poteva addirittura calcolare quando brillavano della luce più potente e quando della luce più debole. Proprio in mezzo a una sala di neve vuota e enorme si trovava un lago ghiacciato; era infranto in mille pezzi, ma ogni pezzo era identico all'altro, e era una vera opera d'arte. Proprio lì sopra stava seduta la regina della neve quando era a casa, così diceva che sedeva sullo specchio dell'intelligenza, e che quello era l'unico e il miglior posto del mondo.
Il piccolo Kay era viola per il freddo, anzi quasi nero, ma non se ne accorgeva, perché lei con un bacio gli aveva tolto il brivido del freddo, e il suo cuore era come un grumo di ghiaccio. Stava trafficando intorno a alcuni pezzi di ghiaccio lisci e appuntiti, che deponeva in tutti i modi possibili, perché ne voleva ricavare qualcosa, un po' come quando noi abbiamo dei pezzettini di legno e li mettiamo insieme per formare delle figure: quello che si chiama il gioco cinese. Anche Kay faceva varie figure, le più perfette, era il gioco di ghiaccio dell'intelligenza; ai suoi occhi le figure erano meravigliose e molto importanti, e questo per merito del granellino di vetro che aveva nell'occhio! Poi realizzava delle figure che erano delle parole scritte, ma non riusciva mai a comporre la parola che lui voleva, "eternità," e la regina della neve gli aveva detto: "Se riuscirai a comporre quella parola, diventerai signore di te stesso, e io ti regalerò il mondo intero e un paio di pattini nuovi". Ma lui non riusciva.
"Ora devo andare nei paesi caldi" disse la regina della neve "devo andare a guardare nelle mie pentole nere." Erano le montagne che gettano il fuoco, l'Etna e il Vesuvio, come si chiamano. "Devo imbiancarle un po'! È ora ormai. E la neve sta molto bene sui limoni e sulle viti!" Così la regina della neve volò via.
Kay rimase tutto solo in quelle grandissime e gelide sale vuote a guardare i suoi pezzi di ghiaccio continuando a pensare finché la testa quasi non gli scoppiava; restava rigido e immobile, tanto da sembrare morto assiderato.
Fu in quel momento che la piccola Gerda entrò nel castello attraverso il grande portone, fatto di vento tagliente, ma lei recitò la preghiera della sera e il vento si calmò, come volesse dormire, così lei entrò in quelle sale gelide, vuote e enormi. Allora vide Kay, lo riconobbe, e gli saltò al collo, lo abbracciò stretto e gridò: "Kay! Dolce piccolo Kay! Finalmente ti ho trovato!".
Ma lui rimase immobile, rigido e gelido; allora la piccola Gerda pianse calde lacrime, che gli caddero sul petto, gli entrarono nel cuore, sciolsero il grumo di ghiaccio e corrosero il pezzettino di specchio che si trovava dentro; Kay la guardò e lei cantò l'inno:
Le rose crescono nelle valli, laggiù parleremo con Gesù Bambino!
Allora Kay scoppiò in lacrime; pianse tanto che il granellino di specchio gli uscì dagli occhi, lui riconobbe la fanciulla e esultò di gioia: "Gerda, dolce piccola Gerda! Dove sei stata tutto questo tempo? E dove sono stato io?" e si guardò intorno. "Che freddo fa qui! Com'è tutto vuoto e enorme!" E abbracciò forte Gerda, e lei rise e pianse di gioia, era così bello che persino i pezzi di ghiaccio si misero a danzare di gioia intorno a loro, e quando furono stanchi si fermarono, formando proprio quelle lettere che la regina della neve aveva detto a Kay di comporre, per poter diventare signore di se stesso e ottenere da lei tutto il mondo e un paio di pattini nuovi.
Gerda gli baciò le guance, e queste ripresero colore, poi gli baciò gli occhi, che luccicarono come quelli di lei, poi gli baciò i piedi e le mani, e lui divenne vispo e sano. La regina della neve poteva pure tornare a casa: la lettera di addio stava scritta là con i pezzi di ghiaccio luccicanti.
Allora si presero per mano e uscirono dal grande castello; parlarono della nonna e delle rose sul tetto; e dove loro camminavano i venti si placavano e il sole splendeva; quando raggiunsero il cespuglio con le bacche rosse trovarono la renna che li aspettava; c'era un'altra giovane renna con lei, con le mammelle gonfie: diede ai piccoli il suo latte e li baciò sulla bocca. Poi le due renne portarono Kay e Gerda prima dalla donna di Finlandia, dove si scaldarono nella calda stanza e dove si informarono sul viaggio di ritorno; quindi dalla donna della Lapponia, che aveva cucito per loro dei nuovi abitini e preparato una slitta.
Allora le due renne si misero a saltare al loro fianco e li accompagnarono fino ai confini del paese, dove cominciava a spuntare la prima erbetta, e là i bambini salutarono le renne e la donna della Lapponia. "Addio!" dissero tutti. I primi uccellini cominciarono a cinguettare, il bosco era pieno di verdi gemme, e da li uscì cavalcando su un magnifico cavallo che Gerda conosceva (era stato attaccato alla carrozza d'oro) una fanciulla con un bel cappello rosso in testa e in mano le pistole; era la figlia del brigante, che, stanca di stare a casa, voleva andare prima verso Nord e poi, se non si fosse divertita, da qualche altra parte. Subito riconobbe Gerda e Gerda riconobbe lei; fu veramente una gioia!
"Sei proprio un bel tipo a andare in giro per il mondo!" disse al piccolo Kay. "Mi piacerebbe sapere se meriti che la gente vada fino alla fine del mondo per te!"
Ma Gerda le accarezzò la guancia e le chiese del principe e della principessa.
"Sono partiti per una terra straniera" rispose la figlia del brigante.
"E la cornacchia?" chiese la piccola Gerda.
"Ah, la cornacchia è morta!" rispose quella. "La cornacchia domestica è diventata vedova e se ne va in giro con un pezzetto di lana nero intorno a una zampa; si lamenta in modo pietoso, ma sono tutte storie! Adesso raccontami tu piuttosto come ti è andata e come hai fatto a trovarlo."
Gerda e Kay raccontarono insieme.
"Oh, accidenti!" esclamò la figlia del brigante, strinse loro la mano e promise che se un giorno fosse passata per il loro paese sarebbe andata a trovarli; poi se ne cavalcò via nel vasto mondo, mentre Kay e Gerda s'incamminarono mano nella mano, e dove camminavano spuntava la bella primavera con i fiori e il verde; le campane della chiesa suonarono, e loro riconobbero le alte torri e la grande città. Era quella in cui abitavano: vi entrarono e camminarono fino alla porta della nonna, su per le scale, nella stanza dove tutto si trovava nello stesso modo di prima, e l'orologio diceva: "Tic! Tac!" e le lancette giravano; ma quando entrarono dalla porta si accorsero che erano diventati adulti. Le rose che si trovavano sulla grondaia e che erano fiorite entravano dalle finestre aperte e c'erano ancora i loro due seggiolini da bambini; Kay e Gerda sedettero ognuno sul proprio e si tennero per mano; avevano dimenticato, come fosse stato un brutto sogno, quel freddo vuoto splendore della regina della neve. La nonna si trovava nella chiara luce di Dio e leggeva a voce alta dal Vangelo: "Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli".
Kay e Gerda si guardarono negli occhi, e improvvisamente capirono il vecchio inno:
Le rose crescono nelle valli, laggiù parleremo con Gesù Bambino!
Stavano lì seduti, entrambi adulti, eppure bambini, bambini nel cuore, e era estate, la calda estate benedetta.
(historia en siete episodios)
PRIMER EPISODIO
Trata del espejo y del trozo de espejo
Atención, que vamos a empezar. Cuando hayamos llegado al final de esta parte sabremos más que ahora; pues esta historia trata de un duende perverso, uno de los peores, ¡como que era el diablo en persona! Un día estaba de muy buen humor, pues había construido un espejo dotado de una curiosa propiedad: todo lo bueno y lo bello que en él se reflejaba se encogía hasta casi desaparecer, mientras que lo inútil y feo destacaba y aún se intensificaba. Los paisajes más hermosos aparecían en él como espinacas hervidas, y las personas más virtuosas resultaban repugnantes o se veían en posición invertida, sin tronco y con las caras tan contorsionadas, que era imposible reconocerlas; y si uno tenía una peca, podía tener la certeza de que se le extendería por la boca y la nariz. Era muy divertido, decía el diablo. Si un pensamiento bueno y piadoso pasaba por la mente de una persona, en el espejo se reflejaba una risa sardónica, y el diablo se retorcía de puro regocijo por su ingeniosa invención. Cuantos asistían a su escuela de brujería - pues mantenía una escuela para duendes - contaron en todas partes que había ocurrido un milagro; desde aquel día, afirmaban, podía verse cómo son en realidad el mundo y los hombres. Dieron la vuelta al Globo con el espejo, y, finalmente, no quedó ya un solo país ni una sola persona que no hubiese aparecido desfigurada en él. Luego quisieron subir al mismo cielo, deseosos de reírse a costa de los ángeles y de Dios Nuestro Señor. Cuanto más se elevaban con su espejo, tanto más se reía éste sarcásticamente, hasta tal punto que a duras penas podían sujetarlo. Siguieron volando y acercándose a Dios y a los ángeles, y he aquí que el espejo tuvo tal acceso de risa, que se soltó de sus manos y cayó a la Tierra, donde quedó roto en cien millones, qué digo, en billones de fragmentos y aún más. Y justamente entonces causó más trastornos que antes, pues algunos de los pedazos, del tamaño de un grano de arena, dieron la vuelta al mundo, deteniéndose en los sitios donde veían gente, la cual se reflejaba en ellos completamente contrahecha, o bien se limitaban a reproducir sólo lo irregular de una cosa, pues cada uno de los minúsculos fragmentos conservaba la misma virtud que el espejo entero. A algunas personas, uno de aquellos pedacitos llegó a metérseles en el corazón, y el resultado fue horrible, pues el corazón se les volvió como un trozo de hielo. Varios pedazos eran del tamaño suficiente para servir de cristales de ventana; pero era muy desagradable mirar a los amigos a través de ellos. Otros fragmentos se emplearon para montar anteojos, y cuando las personas se calaban estos lentes para ver bien y con justicia, huelga decir lo que pasaba. El diablo se reía a reventar, divirtiéndose de lo lindo. Pero algunos pedazos diminutos volaron más lejos. Ahora vais a oírlo.
SEGUNDO EPISODIO
Un niño y una niña
En la gran ciudad, donde viven tantas personas y se alzan tantas casas que no queda sitio para que todos tengan un jardincito - por lo que la mayoría han de contentarse con cultivar flores en macetas -, había dos niños pobres que tenían un jardín un poquito más grande que un tiesto. No eran hermano y hermana, pero se querían como si lo fueran. Los padres vivían en las buhardillas de dos casas contiguas. En el punto donde se tocaban los tejados de las casas, y el canalón corría entre ellos, se abría una ventanita en cada uno de los edificios; bastaba con cruzar el canalón para pasar de una a otra de las ventanas.
Los padres de los dos niños tenían al exterior dos grandes cajones de madera, en los que plantaban hortalizas para la cocina; en cada uno crecía un pequeño rosal, y muy hermoso por cierto. He aquí que a los padres se les ocurrió la idea de colocar los cajones de través sobre el canalón, de modo que alcanzasen de una a otra ventana, con lo que parecían dos paredes de flores. Zarcillos de guisantes colgaban de los cajones, y los rosales habían echado largas ramas, que se curvaban al encuentro una de otra; era una especie de arco de triunfo de verdor y de flores. Como los cajones eran muy altos, y los niños sabían que no debían subirse a ellos, a menudo se les daba permiso para visitarse; entonces, sentados en sus taburetes bajo las rosas, jugaban en buena paz y armonía.
En invierno, aquel placer se interrumpía. Con frecuencia, las ventanas estaban completamente heladas. Entonces los chiquillos calentaban a la estufa monedas de cobre, y, aplicándolas contra el hielo que cubría al cristal, despejaban en él una mirilla, detrás de la cual asomaba un ojo cariñoso y dulce, uno en cada ventana; eran los del niño y de la niña; él se llamaba Carlos, y ella, Margarita. En verano era fácil pasar de un salto a la casa del otro, pero en invierno había que bajar y subir muchas escaleras, y además nevaba copiosamente en la calle. Es un enjambre de abejas blancas - decía la abuela, que era muy viejecita.
- ¿Tienen también una reina? -preguntó un día el chiquillo, pues sabía que las abejas de verdad la tienen.
- ¡Claro que sí! -respondió la abuela-. Vuela en el centro del enjambre, con las más grandes, y nunca se posa en el suelo, sino que se vuelve volando a la negra nube. Algunas noches de invierno vuela por las calles de la ciudad y mira al interior de las ventanas, y entonces éstas se hielan de una manera extraña, cubriéndose como de flores.
- ¡Sí, ya lo he visto! -exclamaron los niños a dúo; y entonces supieron que aquello era verdad.
- ¿Y podría entrar aquí la reina de las nieves? -preguntó la muchachita.
- Déjala que entre -dijo el pequeño-. La pondré sobre la estufa y se derretirá.
Pero la abuela le acarició el cabello y se puso a contar otras historias.
Aquella noche, estando Carlitos en su casa medio desnudo, subióse a la silla que había junto a la ventana y miró por el agujerito. Fuera caían algunos copos de nieve, y uno de ellos, el mayor, se posó sobre el borde de uno de los cajones de flores; fue creciendo creciendo, y se transformó, finalmente, en una doncella vestida con un exquisito velo blanco hecho como de millones de copos en forma de estrella. Era hermosa y distinguida, pero de hielo, de un hielo cegador y centelleante, y, sin embargo, estaba viva; sus ojos brillaban como límpidas estrellas, pero no había paz y reposo en ellos. Hizo un gesto con la cabeza y una seña con la mano. El niño, asustado, saltó al suelo de un brinco; en aquel momento pareció como si delante de la ventana pasara volando un gran pájaro. Fue una sensación casi real.
Al día siguiente hubo helada con el cielo sereno, y luego vino el deshielo; después apareció la primavera. Lució el sol, brotaron las plantas, las golondrinas empezaron a construir sus nidos; abriéronse las ventanas, y los niños pudieron volver a su jardincito del canalón, encima de todos los pisos de las casas.
En verano, las rosas florecieron con todo su esplendor. La niña había aprendido una canción que hablaba de rosas, y en ella pensaba al mirar las suyas; y la cantó a su compañero, el cual cantó con ell
"Florecen en el valle las rosas,
Bendito seas, Jesús, que las haces tan hermosas".
Y los pequeños, cogidos de las manos, besaron las rosas y, dirigiendo la mirada a la clara luz del sol divino, le hablaron como si fuese el Niño Jesús. ¡Qué días tan hermosos! ¡Qué bello era todo allá fuera, junto a los lozanos rosales que parecían dispuestos a seguir floreciendo eternamente!
Carlos y Margarita, sentados, miraban un libro de estampas en que se representaban animales y pajarillos, y entonces - el reloj acababa de dar las cinco en el gran campanario - dijo Carlos: - ¡Ay, qué pinchazo en el corazón! ¡Y algo me ha entrado en el ojo!
La niña le rodeó el cuello con el brazo, y él parpadeaba, pero no se veía nada.
- Creo que ya salió -dijo; pero no había salido. Era uno de aquellos granitos de cristal desprendidos del espejo, el espejo embrujado. Bien os acordáis de él, de aquel horrible cristal que volvía pequeño y feo todo lo grande y bueno que en él se reflejaba, mientras hacía resaltar todo lo malo y ponía de relieve todos los defectos de las cosas. Pues al pobre Carlitos le había entrado uno de sus trocitos en el corazón. ¡Qué poco tardaría éste en volvérsela como un témpano de hielo! Ya no le dolía, pero allí estaba.
- ¿Por qué lloras? -preguntó el niño-. ¡Qué fea te pones! No ha sido nada. ¡Uf! -exclamó de pronto-, ¡aquella rosa está agusanada! Y mira cómo está tumbada. No valen nada, bien mirado. ¡Qué quieres que salga de este cajón! -y pegando una patada al cajón, arrancó las dos rosas.
- Carlos, ¿qué haces? -exclamó la niña; y al darse él cuenta de su espanto, arrancó una tercera flor, se fue corriendo a su ventana y huyó de la cariñosa Margarita.
Al comparecer ella más tarde con el libro de estampas, le dijo Carlos que aquello era para niños de pecho; y cada vez que abuelita contaba historias, salía él con alguna tontería. Siempre que podía, se situaba detrás de ella, y, calándose unas gafas, se ponía a imitarla; lo hacía con mucha gracia, y todos los presentes se reían. Pronto supo remedar los andares y los modos de hablar de las personas que pasaban por la calle, y todo lo que tenían de peculiar y de feo. Y la gente exclamaba: - ¡Tiene una cabeza extraordinaria este chiquillo! -. Pero todo venía del cristal que por el ojo se le había metido en el corazón; esto explica que se burlase incluso de la pequeña Margarita, que tanto lo quería.
Sus juegos eran ahora totalmente distintos de los de antes; eran muy juiciosos. En invierno, un día de nevada, se presentó con una gran lupa, y sacando al exterior el extremo de su chaqueta, dejó que se depositasen en ella los copos de nieve.
- Mira por la lente, Margarita -dijo; y cada copo se veía mucho mayor, y tenía la forma de una magnífica flor o de una estrella de diez puntas; daba gusto mirarlo -. ¡Fíjate qué arte! -observó Carlos-. Es mucho más interesante que las flores de verdad; aquí no hay ningún defecto, son completamente regulares. ¡Si no fuera porque se funden!
Poco más tarde, el niño, con guantes y su gran trineo a la espalda, dijo al oído de Margarita: - Me han dado permiso para ir a la plaza a jugar con los otros niños -y se marchó.
En la plaza no era raro que los chiquillos más atrevidos atasen sus trineos a los coches de los campesinos, y de esta manera paseaban un buen trecho arrastrados por ellos. Era muy divertido. Cuando estaban en lo mejor del juego, llegó un gran trineo pintado de blanco, ocupado por un personaje envuelto en una piel blanca y tocado con un gorro, blanco también. El trineo dio dos vueltas a la plaza, y Carlos corrió a atarle el suyo, dejándose arrastrar. El trineo desconocido corría a velocidad creciente, y se internó en la calle más próxima; el conductor volvió la cabeza e hizo una seña amistosa a Carlos, como si ya lo conociese. Cada vez que Carlos trataba de soltarse, el conductor le hacía un signo con la cabeza, y el pequeño se quedaba sentado. Al fin salieron de la ciudad, y la nieve empezó a caer tan copiosamente, que el chiquillo no veía siquiera la mano cuando se la ponía delante de los ojos; pero la carrera continuaba. Él soltó rápidamente la cuerda para desatarse del trineo grande pero de nada le sirvió; su pequeño vehículo seguía sujeto, y corrían con la velocidad del viento. Se puso a gritar, pero nadie lo oyó; continuaba nevando intensamente, y el trineo volaba, pegando de vez en cuando violentos saltos, como si salvase fosos y setos. Carlos estaba aterrorizado; quería rezar el Padrenuestro, pero sólo acudía a su memoria la tabla de multiplicar.
Los copos de nieve eran cada vez mayores, hasta que, al fin, parecían grandes pollos blancos. De repente dieron un salto a un lado, el trineo se detuvo, y la persona que lo conducía se incorporó en el asiento. La piel y el gorro eran de pura nieve, y ante los ojos del chiquillo se presentó una señora alta y esbelta, de un blanco resplandeciente. Era la Reina de las Nieves.
- Hemos corrido mucho -dijo, pero, ¡qué frío! Métete en mi piel de oso -, prosiguió, y lo sentó junto a ella en su trineo y lo envolvió en la piel. A él le pareció que se hundía en un torbellino de nieve.
- ¿Todavía tienes frío? -preguntóle la señora, besándolo en la frente. ¡Oh, sus labios eran peor que el hielo, y el beso se le entró en el corazón, que ya de suyo estaba medio helado! Tuvo la sensación de que iba a morir, pero no duró más que un instante; luego se sintió perfectamente, y dejó de notar el frío.
"¡Mi trineo! ¡No olvides mi trineo!", pensó él de pronto; pero estaba atado a uno de los pollos blancos, el cual echo a volar detrás de ellos con el trineo a la espalda. La Reina de las Nieves dio otro beso a Carlos, y Margarita, la abuela y todos los demás se borraron de su memoria.
- No te volveré a besar -dijo ella-, pues de lo contrario te mataría.
Carlos la miró; era muy hermosa; no habría podido imaginar un rostro más inteligente y atractivo. Ya no le parecía de hielo, como antes, cuando le había estado haciendo señas a través de la ventana. A los ojos del niño era perfecta, y no le inspiraba temor alguno. Contóle que sabía hacer cálculo mental, hasta con quebrados; que sabía cuántas millas cuadradas y cuántos habitantes tenía el país. Ella lo escuchaba sonriendo, y Carlos empezó a pensar que tal vez no sabía aún bastante. Y levantó los ojos al firmamento, y ella emprendió el vuelo con él, hacia la negra nube, entre el estrépito de la tempestad; el niño se acordó de una vieja canción. Pasaron volando por encima de ciudades y lagos, de mares y países; debajo de ellos aullaban el gélido viento y los lobos, y centelleaba la nieve; y encima volaban las negras y ruidosas cornejas; pero en lo más alto del cielo brillaba, grande y blanca, la luna, y Carlos la estuvo contemplando durante toda la larga noche. Al amanecer se quedó dormido a los pies de la Reina de las Nieves.
TERCER EPISODIO
El jardín de la hechicera
Pero, ¿qué hacía Margarita, al ver que Carlos no regresaba? ¿Dónde estaría el niño? Nadie lo sabía, nadie pudo darle noticias. Los chicos de la calle contaban que lo habían visto atar su trineo a otro muy grande y hermoso que entró en la calle, y salió por la puerta de la ciudad. Todos ignoraban su paradero; corrieron muchas lágrimas, y también Margarita lloró copiosa y largamente. Después la gente dijo que había muerto, que se habría ahogado en el río que pasaba por las afueras de la ciudad.
¡Ah, qué días de invierno más largos y tristes! Y llegó la primavera, con su sol confortador.
- Carlos murió; ya no lo tengo -dijo la pequeña Margarita.
- No lo creo -respondió el sol.
- Está muerto y ha desaparecido -dijo la niña a las golondrinas.
- ¡No lo creemos! -replicaron éstas; y al fin la propia Margarita llegó a no creerlo tampoco.
- Me pondré los zapatos colorados nuevos -dijo un día-. Los que Carlos no ha visto aún, y bajaré al río a preguntar por él.
Era aún muy temprano. Dio un beso a su abuelita, que dormía, y, calzándose los zapatos rojos, salió sola de la ciudad, en dirección al río.
- ¿Es cierto que me robaste a mi compañero de juego? Te daré mis zapatos nuevos si me lo devuelves.
Y le pareció como si las ondas le hiciesen unas señas raras. Se quitó los zapatos rojos, que le gustaban con delirio, y los arrojó al río; pero cayeron junto a la orilla, y las leves ondas los devolvieron a tierra. Habríase dicho que el río no aceptaba la prenda que ella más quería, porque Carlos no estaba en él. Pero Margarita, pensando que no había echado los zapatos lo bastante lejos, subióse a un bote que flotaba entre los juncos y, avanzando hasta su extremo, arrojó nuevamente los zapatos al agua. Pero resultó que el bote no estaba amarrado y, con el movimiento producido por la niña, se alejó de la orilla. Al darse cuenta la niña, quiso saltar a tierra, pero antes que pudiera llegar a popa, la embarcación se había separado ya cosa de una vara de la ribera y seguía alejándose a velocidad creciente.
Margarita, en extremo asustada, rompió a llorar, pero nadie la oyó aparte los gorriones, los cuales, no pudiendo llevarla a tierra, se echaron a volar a lo largo de la orilla, piando como para consolarla: "¡Estamos aquí, estamos aquí!". El bote avanzaba, arrastrado por la corriente, y Margarita permanecía descalza y silenciosa; los zapatitos rojos flotaban en pos de la barca, sin poder alcanzarla, pues ésta navegaba a mayor velocidad.
Las dos orillas eran muy hermosas, con lindas flores, viejos árboles y laderas en las que pacían ovejas y vacas; pero no se veía ni un ser humano.
"Acaso el río me conduzca hasta Carlitos", pensó Margarita, y aquella idea le devolvió la alegría. Se puso en pie y estuvo muchas horas contemplando la hermosa ribera verde, hasta que llegó frente a un gran jardín plantado de cerezos, en el que se alzaba una casita con extrañas ventanas de color rojo y azul. Por lo demás, tenía el tejado de paja, y fuera había dos soldados de madera, con el fusil al hombro.
Margarita los llamó, creyendo que eran de verdad; pero como es natural, no respondieron; se acercó mucho a ellos, pues el río impelía el bote hacia la orilla.
La niña volvió a llamar más fuerte, y entonces salió de la casa una mujer muy vieja, muy vieja, que se apoyaba en una muletilla; llevaba, para protegerse del sol, un gran sombrero pintado de bellísimas flores.
- ¡Pobre pequeña! -dijo la vieja-. ¿Cómo viniste a parar a este río caudaloso y rápido que te ha arrastrado tan lejos? -. Y, entrando en el agua, la mujer sujetó el bote con su muletilla, tiró de él hacia tierra y ayudó a Margarita a desembarcar.
Se alegró la niña de volver a pisar tierra firme, aunque la vieja no dejaba de inspirarle cierto temor.
- Ven y cuéntame quién eres y cómo has venido a parar aquí -dijo la mujer.
Margarita se lo explicó todo, mientras la mujer no cesaba de menear la cabeza diciendo: "¡Hm, hm!". Y cuando la niña hubo terminado y preguntado a la vieja si por casualidad había visto a Carlitos, respondió ésta que no había pasado por allí, pero que seguramente vendría. No debía afligirse y sí, en cambio, probar las cerezas, y contemplar sus flores, que eran más hermosas que todos los libros de estampas, y además cada una sabía un cuento. Tomó a Margarita de la mano y entró con ella en la casa, cerrando la puerta tras de sí.
Las ventanas eran muy altas, y los cristales, de colores: rojo, azul y amarillo, por lo que la luz del día resultaba muy extraña. Sobre la mesa había un plato de exquisitas cerezas, y Margarita comió todas las que le vinieron en gana, con permiso de la dueña. Mientras comía, la vieja la peinaba con un peine de oro, y el pelo se le iba ensortijando y formando un precioso marco dorado para su carita cariñosa, redonda y rosada.
- ¡Siempre he suspirado por tener una niña bonita como tú -dijo la vieja-. ¡Ya verás qué bien lo pasamos las dos juntas! -. Y mientras seguía peinando el cabello de Margarita, ésta iba olvidándose de su amiguito Carlos, pues la vieja poseía el arte de hechicería, aunque no fuera una bruja perversa. Practicaba su don sólo para satisfacer algún antojo, y le habría gustado quedarse con Margarita. Por eso salió a la rosaleda y, extendiendo la muletilla hacia todos los rosales, magníficamente floridos, hizo que todos desaparecieran bajo la negra tierra, sin dejar señal ni rastro. Temía la mujer que Margarita, al ver las rosas, se acordase de las suyas y de Carlitos y escapase.
Entonces condujo a la niña al jardín. ¡Dios santo! ¡Qué fragancia y esplendor! Crecían allí todas las flores imaginables; las propias de todas las estaciones aparecían abiertas y magníficas; ningún libro de estampas podía comparársele. Margarita se puso a saltar de alegría y estuvo jugando hasta que el sol se ocultó tras los altos cerezos. Entonces fue conducida a una bonita cama, con almohada de seda roja llena de pétalos de violetas, y se durmió y soñó cosas como sólo las sueña una reina el día de su boda.
Al día siguiente volvió a jugar al sol con las flores, y de este modo transcurrieron muchos días. Margarita conocía todas las flores, y a pesar de las muchas que había, le parecía que faltaba una, sin poder precisar cuál. En una ocasión en que estaba sentada contemplando el sombrero de la vieja, que tenía pintadas tantas flores, vio también la más bella de todas: la rosa. La vieja se había olvidado de borrarla del sombrero cuando hizo desaparecer las restantes bajo tierra. Pero, ya se sabe, uno no puede estar en todo.
- Ahora que caigo en ello -exclamó Margarita-, ¿no hay rosas aquí? -y se puso a recorrer los arriates, busca que busca, pero no había ninguna. Entonces se sentó en el suelo y rompió a llorar; sus lágrimas ardientes caían sobre un lugar donde se había hundido uno de los rosales, y cuando humedecieron el suelo, brotó de pronto el rosal, tan florido como en el momento de desaparecer, y Margarita lo abrazó, y besó sus rosas, y le volvieron a la memoria las preciosas de su casa y, con ellas, Carlitos.
- ¡Ay, cómo me he entretenido! -exclamó la niña-. Yo iba en busca de Carlos. ¿No sabéis dónde está? -preguntó a las rosas.- ¿Creéis que está vivo o que está muerto?
- Muerto no está -respondieron las rosas-. Nosotras hemos estado debajo de la tierra, donde moran todos los muertos, pero Carlos no estaba.
- Gracias -dijo Margarita, y, dirigiéndose a las otras flores, miró sus cálices y les preguntó: - ¿Sabéis por ventura dónde está Carlos?
Pero todas las flores tomaban el sol, ensimismadas en sus propias historias. Margarita oyó muchísimas, pero ninguna decía nada de Carlos.
¿Qué decía, pues, la azucena de fuego?
- Oye el tambor: "¡Bum, bum!". Son sólo dos notas, siempre "¡bum! ¡bum!". Escucha el plañido de las mujeres. Escucha la llamada de los sacerdotes. Envuelta en su largo manto rojo, la mujer está sobre la pira; las llamas la rodean, así como a su esposo muerto. Pero la mujer hindú piensa en el hombre vivo que está entre la multitud: en él, cuyos ojos son más ardientes que las llamas; en él, el ardor de cuyos ojos agita su corazón más que el fuego, que pronto reducirá su cuerpo a cenizas. ¿Puede la llama del corazón perecer en la llama de la hoguera?
- No comprendo una palabra de lo que dices -exclamó Margarita.
- Pues éste es mi cuento -replicó la azucena.
¿Qué dijo la campanilla?
- Más arriba del sendero de montaña se alza un antiguo castillo. La espesa siempreviva crece en torno de los vetustos muros rojos, hoja contra hoja, rodeando la terraza. Allí mora una hermosa doncella que, inclinándose sobre la balaustrada, mira constantemente al camino. No hay en el rosal una rosa más fresca que ella; ninguna flor de manzano arrancada por el viento flota más ligera que ella; el crujido de su ropaje de seda dice: "¿No viene aún?".
- ¿Te refieres a Carlos? -preguntó Margarita.
- Yo hablo tan sólo de mi leyenda, de mi sueño -respondió la campanilla.
¿Qué dice el rompenieves?
- Entre unos árboles hay una larga tabla, colgada de unas cuerdas; es un columpio. Dos lindas chiquillas - sus vestidos son blancos como la nieve, y en sus sombreros flotan largas cintas de seda verde - se balancean sentadas en él. Su hermano, que es mayor, está también en el columpio, de pie, rodeando la cuerda con un brazo para sostenerse, pues tiene en una mano una escudilla, y en la otra, una paja, y está soplando pompas de jabón. El columpio no para, y las pompas vuelan, con bellas irisaciones; la última está aún adherida al canutillo y se tuerce al impulso del viento, pues el columpio sigue oscilando. Un perrito negro, ligero como las pompas de jabón, se levanta sobre las patas traseras; también él quería subir al columpio. Pasa volando el columpio, y el perro cae, ladrando furioso, y las pompas estallan. Un columpio, una esferita de espuma que revienta; ¡ésta es mi canción!
- Acaso sea bonito eso que cuentas, pero lo dices de modo tan triste, y además no hablas de Carlitos.
¿Qué decían los jacintos?
- Éranse tres bellas hermanas, exquisitas y transparentes. El vestido de una era rojo; el de la segunda, azul, y el de la tercera, blanco. Cogidas de la mano bailaban al borde del lago tranquilo, a la suave luz de la luna. No eran elfos, sino seres humanos. El aire estaba impregnado de dulce fragancia, y las doncellas desaparecieron en el bosque. La fragancia se hizo más intensa; tres féretros, que contenían a las hermosas muchachas, salieron de la espesura de la selva, flotando por encima del lago, rodeados de luciérnagas, que los acompañaban volando e iluminándolos con sus lucecitas tenues. ¿Duermen acaso las doncellas danzarinas, o están muertas? El perfume de las flores dice que han muerto; la campana vespertina llama al oficio de difuntos.
- ¡Qué tristeza me causas! -dijo Margarita-. ¡Tu perfume es tan intenso! No puedo dejar de pensar en las doncellas muertas. ¡Ay!, ¿estará muerto Carlitos? Las rosas estuvieron debajo de la tierra y dijeron que no.
- ¡Cling, clang! - sonaban los cálices de los jacintos -. No doblamos por Carlitos, no lo conocemos. Cantamos nuestra propia pena, la única que conocemos.
Y Margarita pasó al botón de oro, que asomaba por entre las verdes y brillantes hojas.
- ¡Cómo brillas, solecito! -le dijo-. ¿Sabes dónde podría encontrar a mi campanero de juegos?
El botón de oro despedía un hermosísimo brillo y miraba a Margarita. ¿Qué canción sabría cantar? Tampoco se refería a Carlos. No sabía qué decir.
- El primer día de primavera, el sol del buen Dios lucía en una pequeña alquería, prodigando su benéfico calor; sus rayos se deslizaban por las blancas paredes de la casa vecina, junto a las cuales crecían las primeras flores amarillas, semejantes a ascuas de oro al contacto de los cálidos rayos. La anciana abuela estaba fuera, sentada en su silla; la nieta, una linda muchacha que servía en la ciudad, acababa de llegar para una breve visita y besó a su abuela. Había oro, oro puro del corazón en su beso. Oro en la boca, oro en el alma, oro en aquella hora matinal. Ahí tienes mi cuento -concluyó el botón de oro.
- ¡Mi pobre, mi anciana abuelita! -suspiró Margarita-. Sin duda me echa de menos y está triste pensando en mí, como lo estaba pensando en Carlos. Pero volveré pronto a casa y lo llevaré conmigo. De nada sirve que pregunte a las flores, las cuales saben sólo de sus propias penas. No me dirán nada -. Y se arregazó el vestidito para poder andar más rápidamente; pero el lirio de Pascua le golpeó en la pierna al saltar por encima de él. Se detuvo la niña y, considerando la alta flor amarilla, le preguntó: - ¿Acaso tú sabes algo? -y se agachó sobre la flor. ¿Qué le dijo ésta?
- Me veo a mí misma, me veo a mí misma. ¡Oh, cómo huelo! Arriba, en la pequeña buhardilla, está, medio desnuda, una pequeña bailarina, que ora se sostiene sobre una pierna, ora sobre las dos, recorre con sus pies todo el mundo, pero es sólo una ilusión. Vierte agua de la tetera sobre un pedazo de tela que sostiene: es su corpiño, ¡la limpieza es una gran cosa! El blanco vestido cuelga de un gancho; fue también lavado en la tetera y secado en el tejado. Se lo pone, se pone alrededor del cuello el chal azafranado, y así resalta más el blanco del vestido. ¡Arriba la pierna! ¡Mira qué alardes hace sobre un tallo! ¡Me veo a mí misma, me veo a mí misma! ¡Oh esto es magnífico!
- ¡Y qué me importa eso a mí! -dijo Margarita.- ¿A qué viene esa historia? -. Y echó a correr hacia el extremo del jardín.
La puerta estaba cerrada, pero ella forcejeó con el herrumbroso cerrojo hasta descorrerlo; abrióse por fin, y la niña se lanzó al vasto mundo con los pies descalzos. Por tres veces se volvió a mirar, pero nadie la perseguía. Al fin, fatigadísima, se sentó sobre una gran piedra, y al dirigir la mirada a su alrededor se dio cuenta de que el verano había pasado y de que estaba ya muy avanzado el otoño, cosa que no había podido observar en el hermoso jardín, donde siempre brillaba el sol, y las flores crecían en todas las estaciones.
- ¡Dios mío, cómo me he retrasado! -dijo Margarita-. ¡Estamos ya en otoño; tengo que darme prisa! -. Y se puso en pie para reemprender su camino.
Pobres piececitos suyos, ¡qué heridos y cansados! A su alrededor todo parecía frío y desierto; las largas hojas de los sauces estaban amarillas, y el rocío se desprendía en grandes gotas. Caían las hojas unas tras otras; sólo el endrino tenía aún fruto, pero era áspero y contraía la boca. ¡Ay, qué gris y difícil parecía todo en el vasto mundo!.
CUARTO EPISODIO
El príncipe y la princesa
Margarita no tuvo más remedio que tomarse otro descanso. Y he aquí que en medio de la nieve, en el sitio donde se había sentado, saltó una gran corneja que llevaba buen rato allí contemplando a la niña y bamboleando la cabeza. Finalmente, le dijo:
- ¡Crac, crac, buenos días, buenos días! -. No sabía decirlo mejor, pero sus intenciones eran buenas, y le preguntó adónde iba tan sola por aquellos mundos de Dios. Margarita comprendió muy bien la palabra "sola" y el sentido que encerraba. Contó, pues, a la corneja toda su historia y luego le preguntó si había visto a Carlos.
La corneja hizo un gesto significativo con la cabeza y respondió:
- ¡A lo mejor!
- ¿Cómo? ¿Crees que lo has visto? -exclamó la niña, besando al ave tan fuertemente que por poco la ahoga.
- ¡Cuidado, cuidado! -protestó la corneja-. Me parece que era Carlitos. Sin embargo, te ha olvidado por la princesa.
- ¿Vive con una princesa? -preguntó Margarita.
- Sí, escucha -dijo la corneja-; pero me resulta difícil hablar tu lengua. Si entendieses la nuestra, te lo podría contar mejor.
- Lo siento, pero no la sé -respondió Margarita-. Mi abuelita sí la entendía, y también la lengua de las pes -. ¡Qué lástima, que yo no la aprendiera!
- No importa -contestó la corneja-. Te lo contaré lo mejor que sepa; claro que resultará muy deficiente -. Y le explicó lo que sabía.
- En este reino en que nos encontramos, vive una princesa de lo más inteligente; tanto, que se ha leído todos los periódicos del mundo, y los ha vuelto a olvidar. Ya ves si es lista. Uno de estos días estaba sentada en el trono - lo cual no es muy divertido, según dicen -; el hecho es que se puso a canturrear una canción que decía así: "¿Y si me buscara un marido?". "Oye, eso merece ser meditado", pensó, y tomó la resolución de casarse. Pero quería un marido que supiera responder cuando ella le hablara; un marido que no se limitase a permanecer plantado y lucir su distinción; esto era muy aburrido. Convocó entonces a todas las damas de la Corte, y cuando ellas oyeron lo que la Reina deseaba, se pusieron muy contentas. "¡Esto me gusta! -exclamaron todas-; hace unos días que yo pensaba también en lo mismo". Te advierto que todo lo que digo es verdad -observó la corneja-. Lo sé por mi novia, que tiene libre entrada en palacio; está domesticada.
La novia era otra corneja, claro está. Pues una corneja busca siempre a una semejante y, naturalmente, es siempre otra corneja.
- Los periódicos aparecieron enseguida con el monograma de la princesa dentro de una orla de corazones. Podía leerse en ellos que todo joven de buen parecer estaba autorizado a presentarse en palacio y hablar con la princesa; el que hablase con desenvoltura y sin sentirse intimidado, y desplegase la mayor elocuencia, sería elegido por la princesa como esposo. Puedes creerme -insistió la corneja-, es verdad, tan verdad como que estoy ahora aquí. Acudió una multitud de hombres, todo eran aglomeraciones y carreras, pero nada salió de ello, ni el primer día ni el segundo. Todos hablaban bien mientras estaban en la calle; pero en cuanto franqueaban la puerta de palacio y veían los centinelas en uniforme plateado y los criados con librea de oro en las escaleras, y los grandes salones iluminados, perdían la cabeza. Y cuando se presentaban ante el trono ocupado por la princesa, no sabían hacer otra cosa que repetir la última palabra que ella dijera, y esto a la princesa no le interesaba ni pizca. Era como si al llegar al salón del trono se les hubiese metido rapé en el estómago y hubiesen quedado aletargados, no despertando hasta encontrarse nuevamente en la calle; entonces recobraban el uso de la palabra. Y había una enorme cola que llegaba desde el palacio hasta la puerta de la ciudad. Yo estaba también, como espectadora. Y pasaban hambre y sed, pero en el palacio no se les servía ni un vaso de agua. Algunos, más listos, se habían traído bocadillos, pero no creas que los compartieran con el vecino. Pensaban: "Mejor que tenga cara de hambriento, así no lo querrá la princesa".
- Pero, ¿y Carlos, y Carlitos? -preguntó Margarita-. ¿Cuándo llegó? ¿Estaba entre la multitud?
- Espera, espera, ya saldrá Carlitos. El tercer día se presentó un personajito, sin caballo ni coche, pero muy alegre. Sus ojos brillaban como los tuyos, tenía un cabello largo y hermoso, pero vestía pobremente.
- ¡Era Carlos! -exclamó Margarita, alborozada-. ¡Oh, lo he encontrado! -y dio una palmada.
- Llevaba un pequeño morral a la espalda -prosiguió la corneja. - No, debía de ser su trineo -replicó Margarita-, pues se marchó con el trineo.
- Es muy posible -admitió la corneja-, no me fijé bien; pero lo que sí sé, por mi novia domesticada, es que el tal individuo, al llegar a la puerta de palacio y ver la guardia en uniforme de plata y a los criados de la escalera en librea dorada, no se turbó lo más mínimo, sino que, saludándoles con un gesto de la cabeza, dijo: "Debe ser pesado estarse en la escalera; yo prefiero entrar". Los salones eran un ascua de luz; los consejeros privados y de Estado andaban descalzos llevando fuentes de oro. Todo era solemne y majestuoso. Los zapatos del recién llegado crujían ruidosamente, pero él no se inmutó.
- ¡Es Carlos, sin duda alguna! -repitió Margarita-. Sé que llevaba zapatos nuevos. Oí crujir sus suelas en casa de abuelita.
- ¡Ya lo creo que crujían! -prosiguió la corneja-, y nuestro hombre se presentó alegremente ante la princesa, la cual estaba sentada sobre una gran perla, del tamaño de un torno de hilar. Todas las damas de la Corte, con sus doncellas y las doncellas de las doncellas, y todos los caballeros con sus criados y los criados de los criados, que a su vez tenían asistente, estaban colocados en semicírculo; y cuanto más cerca de la puerta, más orgullosos parecían. Al asistente del criado del criado, que va siempre en zapatillas, uno casi no se atreve a mirarlo; tal es la altivez con que se está junto a la puerta.
- ¡Debe ser terrible -exclamó Margarita-. ¿Y vas a decirme que Carlos se casó con la princesa?
- De no haber sido yo corneja me habría quedado con ella, y esto que estoy prometido. Parece que él habló tan bien como lo hago yo cuando hablo en mi lengua; así me lo ha dicho mi novia domesticada. Era audaz y atractivo. No se había presentado para conquistar a la princesa, sino sólo para escuchar su conversación. Y la princesa le gustó, y ella, por su parte, quedó muy satisfecha de él.
- Sí, seguro que era Carlos -dijo Margarita-. ¡Siempre ha sido tan inteligente! Fíjate que sabía calcular de memoria con quebrados. ¡Oh, por favor, llévame al palacio!
- ¡Niña, qué pronto lo dices! -replicó la corneja-. Tendré que consultarlo con mi novia domesticada; seguramente podrá aconsejarnos, pues de una cosa estoy seguro: que jamás una chiquilla como tú será autorizada a entrar en palacio por los procedimientos reglamentarios.
- ¡Sí, me darán permiso! -afirmó Margarita-. Cuando Carlos sepa que soy yo, saldrá enseguida a buscarme.
- Aguárdame en aquella cuesta -dijo la corneja, y, saludándola con un movimiento de la cabeza, se alejó volando.
Cuando regresó, anochecía ya.
-¡Rah! ¡rah! -gritó-. Ella me ha encargado que te salude, y ahí va un panecillo que sacó de la cocina. Allí hay mucho pan, y tú debes de estar hambrienta. No es posible que entres en el palacio; vas descalza; los centinelas en uniforme de plata y los criados en librea de oro no te lo permitirán. Pero no llores, de un modo u otro te introducirás. Mi novia conoce una escalerita trasera que conduce al dormitorio, y sabe dónde hacerse con las llaves.
Se fueron al jardín, a la gran avenida donde las hojas caían sin parar; y cuando en el palacio se hubieron apagado todas las luces una tras otra, la corneja condujo a Margarita a una puerta trasera que estaba entornada.
¡Oh, cómo le palpitaba a la niña el corazón, de angustia y de anhelo! Le parecía como si fuera a cometer una mala acción, y, sin embargo, sólo quería saber si Carlos estaba allí. Que estaba, era casi seguro; y en su imaginación veía sus ojos inteligentes, su largo cabello; lo veía sonreír cómo antes, cuando se reunían en casa entre las rosas. Sin duda estaría contento de verla, de enterarse del largo camino que había recorrido en su busca; de saber la aflicción de todos los suyos al no regresar él. ¡Oh, qué miedo, y, a la vez, qué contento!
Llegaron a la escalera, iluminada por una lamparilla colocada sobre un armario. En el suelo esperaba la corneja domesticada, volviendo la cabeza en todas direcciones. Miró a Margarita, que la saludó con una inclinación, tal como le enseñara la abuelita.
- Mi prometido me ha hablado muy bien de usted, señorita -dijo la corneja domesticada-. Su biografía, como vulgarmente se dice, o sea, la historia de su vida, es, por otra parte, muy conmovedora. Haga el favor de coger la lámpara, y yo guiaré. Lo mejor es ir directamente por aquí, así no encontraremos a nadie.
- Tengo la impresión de que alguien nos sigue - exclamó Margarita; en efecto, algo pasó con un silbido; eran como sombras que se deslizaban por la pared, caballos de flotantes melenas y delgadas patas, cazadores, caballeros y damas cabalgando.
- Son sueños nada más -dijo la corneja-. Vienen a buscar los pensamientos de Su Alteza para llevárselos de caza. Tanto mejor, así podrá usted contemplarla a sus anchas en la cama. Pero confío en que, si es usted elevada a una condición honorífica y distinguida, dará pruebas de ser agradecida.
- No hablemos ahora de eso -intervino la corneja del bosque.
Llegaron al primer salón, tapizado de color de rosa, con hermosas flores en las paredes. Pasaban allí los sueños rumoreando, pero tan vertiginosos, que Margarita no pudo ver a los nobles personajes. Cada salón superaba al anterior en magnificencia; era para perder la cabeza. Al fin llegaron al dormitorio, cuyo techo parecía una gran palmera con hojas de cristal, pero cristal precioso; en el centro, de un grueso tallo de oro, colgaban dos camas, cada una semejante a un lirio. En la primera, blanca, dormía la princesa; en la otra, roja, Margarita debía buscar a Carlos. Separó una de las hojas encarnadas y vio un cuello moreno. ¡Era Carlos! Pronunció su nombre en voz alta, acercando la lámpara - los sueños volvieron a pasar veloces por la habitación -, él se despertó, volvió la cabeza y... ¡no era Carlos!
El príncipe se le parecía sólo por el pescuezo, pero era joven y guapo. La princesa, parpadeando por entre la blanca hoja de lirio, preguntó qué ocurría. Margarita rompió a llorar y le contó toda su historia y lo que por ella habían hecho las cornejas.
- ¡Pobre pequeña! -exclamaron los príncipes; elogiaron a las cornejas y dijeron que no estaban enfadados, aunque aquello no debía repetirse. Por lo demás, recibirían una recompensa.
¿Preferís marcharos libremente -preguntó la princesa- o quedaros en palacio en calidad de cornejas de Corte, con derecho a todos los desperdicios de la cocina?
Las dos cornejas se inclinaron respetuosamente y manifestaron que optaban por el empleo fijo, pues pensaban en la vejez y en que sería muy agradable contar con algo positivo para cuando aquélla llegase.
El príncipe se levantó de la cama y la cedió a Margarita; realmente no podía hacer más. Ella cruzó las manos, pensando: "¡Qué buenas son las personas y los animales, después de todo!", y cerrando los ojos, se quedó dormida. Acudieron de nuevo todos los sueños, y creyó ver angelitos de Dios que guiaban un trineo en el que viajaba Carlos, el cual la saludaba con la cabeza. Pero todo aquello fue un sueño, y se desvaneció en el momento de despertarse.
Al día siguiente la vistieron de seda y terciopelo de pies a cabeza. La invitaron a quedarse en palacio, donde lo pasaría muy bien; pero ella pidió sólo un cochecito con un caballo y un par de zapatitos, para seguir corriendo el mundo en busca de Carlos.
Le dieron zapatos y un manguito y la vistieron primorosamente, y cuando se dispuso a partir, había en la puerta una carroza nueva de oro puro; los escudos del príncipe y de la princesa brillaban en ella como estrellas. El cochero, criados y postillones - pues no faltaban tampoco los postillones -, llevaban sendas coronas de oro. Los príncipes en persona la ayudaron a subir al coche y le desearon toda clase de venturas. La corneja silvestre, que ya se había casado, la acompañó un trecho de tres millas, posada a su lado, pues no podía soportar ir de espaldas. La otra corneja se quedó en la puerta batiendo de alas; no siguió porque desde que contaba con un empleo fijo, sufría de dolores de cabeza, pues comía con exceso. El interior del coche estaba acolchado con cosquillas de azúcar, y en el asiento había fruta y mazapán.
- ¡Adiós, adiós! -gritaron el príncipe y la princesa; y Margarita lloraba, y lloraba también la corneja-. Al cabo de unas millas se despidió también ésta, y resultó muy dura aquella despedida. Subióse volando a un árbol, y permaneció en él agitando las negras alas hasta que desapareció el coche, que relucía como el sol.
QUINTO EPISODIO
La pequeña bandolera
Avanzaban a través del bosque tenebroso, y la carroza relucía como una antorcha. Su brillo era tan intenso, que los ojos de los bandidos no podían resistirlo.
- ¡Es oro, es oro! -gritaban, y, arremetiendo con furia, detuvieron los caballos, dieron muerte a los postillones, al cochero y a los criados y mandaron apearse a Margarita.
- Está gorda, apetitosa, la alimentaron con nueces -dijo la vieja de los bandidos, que era barbuda y tenía unas cejas que le colgaban por encima de los ojos.
- Será sabrosa como un corderillo bien cebado. ¡Se me hace la boca agua! -y sacó su afilado cuchillo, que daba miedo de brillante que era.
- ¡Ay! -gritó al mismo tiempo, pues su propia hija, que se le había subido a la espalda, acababa de pegarle un mordisco en la oreja; era salvaje y endiablada como ella sola-. ¡Maldita rapaza! -exclamó la madre, renunciando a degollar a Margarita.
- ¡Jugará conmigo! -dijo la niña de los bandoleros.
- Me dará su manguito y su lindo vestido, y dormirá en mi cama ­y pegó a la vieja otro mordisco, que la hizo saltar y dar vueltas, mientras los bandidos reían y decían:
- ¡Cómo baila con su golfilla!
- ¡Quiero subir al coche! -gritó la pequeña salvaje, y hubo que complacerla, pues era malcriada y terca como ella sola. Ella y Margarita subieron al carruaje y salieron a galope a campo traviesa. La hija de los bandoleros era de la edad de Margarita, pero más robusta, ancha de hombros y de piel morena. Tenía los ojos negros, de mirada casi triste. Rodeando a Margarita por la cintura, le dijo: - No te matarán mientras yo no me enfade contigo ¿Eres una princesa, verdad?
- No -respondió Margarita, y le contó todas sus aventuras y lo mucho que ansiaba encontrar a su Carlitos.
La otra la miraba muy seriamente; hizo un signo con la cabeza y dijo: - No te matarán, aunque yo me enfade; entonces lo haré yo misma -. Y secó los ojos de Margarita y metió las manos en el hermoso manguito, tan blando y caliente.
El coche se detuvo; estaban en el patio de un castillo de bandoleros, todo él derruido de arriba abajo. Cuervos y cornejas salían volando de los grandes orificios, y enormes perros mastines, cada uno de los cuales parecía capaz de tragarse un hombre, saltaban sin ladrar, pues les estaba prohibido.
En la espaciosa sala, vieja y ahumada, ardía un gran fuego en el centro del suelo de piedra; el humo se esparcía por debajo del techo, buscando una salida. Cocía un gran caldero de sopa, al mismo tiempo que asaban liebres y conejos.
- Esta noche dormirás sola conmigo y con mis animalitos -dijo la hija de los bandidos.
Diéronle de comer y beber, y luego las dos niñas se apartaron a un rincón donde había paja y alfombras. Encima, posadas en estacas y perchas, había un centenar de palomas, dormidas al parecer, pero que se movieron un poco al acercarse las chicas.
- Todas son mías -dijo la hija de los bandidos, y, sujetando una por los pies, la sacudió violentamente, haciendo que el animal agitara las alas-. ¡Bésala! -gritó, apretándola contra la cara de Margarita-. Allí están las palomas torcaces, las buenas piezas -y señaló cierto número de barras clavadas ante un agujero en la parte superior de la pared-. También son torcaces aquellas dos; si no las tenemos encerradas, escapan; y éste es mi preferido -y así diciendo, agarró por los cuernos un reno, que estaba atado por un reluciente anillo de cobre en torno al cuello-. No hay más remedio que tenerlo sujeto, de lo contrario huye. Todas las noches le hago cosquillas en el cuello con el cuchillo, y tiene miedo -. Y la chiquilla, sacando un largo cuchillo de una rendija de la pared, lo deslizó por el cuello del reno. El pobre animal todo era patalear, y la chica venga reírse. Luego metió a Margarita en la cama con ella.
- ¿Duermes siempre con el cuchillo a tu lado? -preguntó Margarita, mirando el arma un si es no es nerviosa.
- ¡Desde luego! -respondió la pequeña bandolera-. Nunca sabe una lo que puede ocurrir. Pero vuelve a contarme lo que me dijiste antes de Carlitos y por qué te fuiste por esos mundos.
Margarita le repitió su historia desde el principio, mientras las palomas torcaces arrullaban en su jaula y las demás dormían. La hija de los bandidos pasó un brazo en torno al cuello de Margarita, y, con el cuchillo en la otra mano, se puso a dormir y a roncar. Margarita, en cambio, no podía pegar los ojos, pues no sabía si seguiría viva o si debía morir. Los bandidos, sentados alrededor del fuego, cantaban y bebían, mientras la vieja no cesaba de dar volteretas. El espectáculo resultaba horrible para Margarita.
En esto dijeron las palomas torcaces: - ¡Ruk, ruk!, hemos visto a Carlitos. Un pollo blanco llevaba su trineo, él iba sentado en la carroza de la Reina de las Nieves, que volaba por encima del bosque cuando nosotras estábamos en el nido. Sopló sobre nosotras y murieron todas menos nosotras dos. ¡Ruk, ruk!
- ¿Qué estáis diciendo ahí arriba? -exclamó Margarita- ¿Adónde iba la Reina de la Nieves? ¿Sabéis algo?
- Al parecer se dirigía a Laponia, donde hay siempre nieve y hielo. Pregunta al reno atado ahí.
- Allí hay hielo y nieve, ¡qué magnífico es aquello y qué bien se está! -dijo el reno-. Salta uno con libertad por los grandes prados relucientes. Allí tiene la Reina de las Nieves su tienda de verano; pero su palacio está cerca del Polo Norte, en las islas que llaman Spitzberg.
- ¡Oh, Carlos, Carlitos! -suspiró Margarita.
- ¿No puedes estarte quieta? -la riñó la hija de los bandidos- ¿O quieres que te clave el cuchillo en la barriga?
A la mañana siguiente Margarita le contó todo lo que le habían dicho las palomas torcaces; la muchacha se quedó muy seria, movió la cabeza y dijo: - ¡Qué más da, qué más da! ¿Sabes dónde está Laponia? -preguntó al reno.
- ¿Quién lo sabría mejor que yo? -respondió el animal, y sus ojos despedían destellos-. Allí nací y me crié. ¡Cómo he brincado por sus campos de nieve!
- ¡Escucha! -dijo la muchacha a Margarita-. Ya ves que todos nuestros hombres se han marchado, pero mi madre sigue en casa. Más tarde empinará el codo y echará su siestecita; entonces haré algo por ti -. Saltando de la cama, cogió a su madre por el cuello y, tirándole de los bigotes, le dijo: - ¡Buenos días, mi dulce chivo! -. La vieja correspondió a sus caricias con varios capirotazos que le pusieron toda la nariz amoratada; pero no era sino una muestra de cariño.
Cuando la vieja, tras unos copiosos tragos, se entregó a la consabida siestecita, la hija llamó al reno y le dijo: - Podría divertirme aún unas cuantas veces cosquilleándote el cuello con la punta de mi afilado cuchillo; ¡estás entonces tan gracioso! Pero es igual, te desataré y te ayudaré a escapar, para que te marches a Laponia. Pero cuida de brincar con ánimos y de conducir a esta niña al palacio de la Reina de las Nieves, donde está su compañero de juegos. Ya oíste su relato, pues hablaba bastante alto y tú escuchabas.
El reno pegó un brinco de alegría. La muchacha montó a Margarita sobre su espalda, cuidando de sujetarla fuertemente y dándole una almohada para sentarse.
- Así estás bien -dijo-, ahí tienes tus botas de piel, pues hace frío; pero yo me quedo con el manguito; es demasiado precioso. No te vas a helar por eso. Te daré los grandes mitones de mi madre que te llegarán hasta el codo; póntelos... así; ahora tus manos parecen las de mi madre.
Margarita lloraba de alegría.
- No puedo verte lloriquear -dijo la hija de los bandidos-. Debes estar contenta; ahí tienes dos panes y un jamón para que no pases hambre -. Ató las vituallas a la grupa del reno, abrió la puerta, hizo entrar todos los perros y, cortando la cuerda con su cuchillo, dijo al reno: - ¡A galope, pero mucho cuidado con la niña!
Margarita alargó las manos, cubiertas con los grandes mitones, hacia la muchachita, para despedirse de ella, y enseguida el reno emprendió la carrera a campo traviesa, por el inmenso bosque, por pantanos y estepas, a toda velocidad. Aullaban los lobos y graznaban los cuervos; del cielo llegaba un sonido de "¡p-ff, p-ff!", como si estornudasen.
- ¡Son mis auroras boreales! -dijo el reno-. Mira cómo brillan -. Y redobló la velocidad, día y noche. Se acabaron los panes y el jamón, y al fin llegaron a Laponia.
SEXTO EPISODIO
La lapona y la finesa
Hicieron alto frente a una casita de aspecto muy pobre. El tejado llegaba hasta el suelo, y la puerta era tan baja que, para entrar y salir, la familia tenía que arrastrarse. Nadie había en la casa, aparte una vieja lapona que cocía pescado en una lámpara de aceite. El reno contó toda la historia de Margarita, aunque después de haber relatado la propia, que estimaba mucho más importante. La niña estaba tan aterida de frío, que no podía hablar.
- ¡Pobres! -dijo la mujer lapona-. ¡Lo que os queda aún por andar! Tenéis que correr centenares de millas antes de llegar a Finlandia, que es donde vive la Reina de las Nieves, y todas las noches enciende un castillo de fuegos artificiales. Escribiré unas líneas sobre un bacalao seco, pues papel no tengo, y lo entregaréis a la finesa de allá arriba. Ella podrá informaros mejor que yo.
Y cuando Margarita se hubo calentado y saciado el hambre y la sed, la mujer escribió unas palabras en un bacalao seco y, recomendando a la niña que cuidase de no perderlo, lo ató al reno, el cual reemprendió la carrera. "¡P-ff! ¡P-ff!", seguía rechinando en el cielo; y durante toda la noche lucieron magníficas auroras boreales azules. Luego llegaron a Finlandia, y llamaron a la chimenea de la mujer finesa, ya que puerta no había.
La temperatura del interior era tan elevada, que la misma finesa iba casi desnuda; era menuda y en extremo sucia. Se apresuró a quitar los vestidos a Margarita, así como los mitones y botas, ya que de otro modo el calor se le habría hecho insoportable; puso un pedazo de hielo sobre la cabeza del reno y luego leyó las líneas escritas en el bacalao. Las leyó por tres veces, hasta que se las hubo aprendido de memoria, y a continuación echó el pescado en el caldero de la sopa, pues era perfectamente comestible, y aquella mujer a todo le hallaba su aplicación.
Entonces el reno empezó a contar su historia y después la de Margarita. La mujer finesa se limitaba a pestañear, sin decir una palabra.
- Eres muy lista -dijo el reno-. Sé que puedes atar todos los vientos del mundo con una hebra. Cuando el marino suelta uno de los cabos, tiene viento favorable; si suelta otro, el viento arrecia, y si deja el tercero y el cuarto, entonces se levanta una tempestad que derriba los árboles. ¿No querrías procurar a esta niña un elixir que le dé la fuerza de doce hombres y le permita dominar a la Reina de las Nieves?
- ¡La fuerza de doce hombres! -dijo la finesa-. No creo que sirviera de gran cosa -. Y, dirigiéndose a un anaquel, cogió una piel arrollada y la desenrolló. Había escritas en ella unas letras misteriosas, y la mujer se puso a leer con tanto esfuerzo, que el sudor le manaba de la frente.
Pero el reno rogó con tanta insistencia en pro de Margarita, y ésta miró a la mujer con ojos tan suplicantes y llenos de lágrimas, que la finesa volvió a pestañear y se llevó al animal a un rincón, donde le dijo al oído, mientras le ponía sobre la cabeza un nuevo pedazo de hielo:
- En efecto, es verdad: Carlitos está aún junto a la Reina de las Nieves, a pleno gusto y satisfacción, persuadido de que es el mejor lugar del mundo. Pero ello se debe a que le entró en el corazón una astilla de cristal, y en el ojo, un granito de hielo. Hay que empezar por extraérselos; de lo contrario, jamás volverá a ser como una persona, y la Reina de las Nieves conservará su poder sobre él.
- ¿Y no puedes tú dar algún mejunje a Margarita, para que tenga poder sobre todas esas cosas?
- No puede darle más poder que el que ya posee. ¿No ves lo grande que es? ¿No ves cómo la sirven hombres y animales, y lo lejos que ha llegado, a pesar de ir descalza? Su fuerza no puede recibirla de nosotros; está en su corazón, por ser una niña cariñosa e inocente. Si ella no es capaz de llegar hasta la Reina de las Nieves y extraer el cristal del corazón de Carlos, nosotros nada podemos hacer. A dos millas de aquí empieza el jardín de la Reina; tú puedes llevarla hasta allí; déjala cerca de un gran arbusto que crece en medio de la nieve y está lleno de bayas rojas, y no te entretengas contándole chismes; vuélvete aquí enseguida.
Dicho esto, la finesa montó a Margarita sobre el reno, el cual echó a correr a toda velocidad.
- ¡Oh, me dejé los zapatitos! ¡Y los mitones! -exclamó Margarita al sentir el frío cortante; pero el reno no se atrevió a detenerse y siguió corriendo hasta llegar al arbusto de las bayas rojas. Una vez en él, hizo que la niña se apease y la besó en la boca, mientras por sus mejillas resbalaban grandes y relucientes lágrimas; luego emprendió el regreso a galope tendido. La pobre Margarita se quedó allí descalza y sin guantes, en medio de aquella gélida tierra de Finlandia.
Echó a correr de frente, tan deprisa como le era posible. Vino entonces todo un ejército de copos de nieve; pero no caían del cielo, el cual aparecía completamente sereno y brillante por la aurora boreal. Los copos de nieve corrían por el suelo, y cuanto más se acercaban, más grandes eran. Margarita se acordó de lo grandes y bonitos que le habían parecido cuando los contempló a través de una lente; sólo que ahora eran todavía mucho mayores y más pavorosos; tenían vida, eran los emisarios de la Reina de las Nieves. Presentaban las formas más extrañas; unos parecían enormes y feos erizos; otros, arañas apelotonadas que sacaban las cabezas; otros eran como gordos ositos de pelo hirsuto; pero todos tenían un brillo blanco y todos eran vivos.
Margarita rezó un padrenuestro, y el frío era tan intenso, que podía ver su propia respiración, que le salía de la boca en forma de vapor. Y el vapor se hacía cada vez más denso, hasta adoptar la figura de angelitos radiantes, que iban creciendo a medida que se acercaban a la tierra; todos llevaban casco en la cabeza, y lanza y escudo en las manos. Su número crecía constantemente, y cuando Margarita hubo terminado su padrenuestro, la rodeaba todo un ejército. Con sus lanzas picaban los horribles copos, haciéndolos estallar en cien pedazos, y Margarita avanzaba segura y contenta.
Los ángeles le acariciaban manos y pies, con lo que ella sentía menos el frío; y se dirigió rápidamente al palacio de la Reina de las Nieves.
Pero veamos ahora cómo lo pasaba Carlos, quien no pensaba, ni mucho menos, en Margarita, ni sospechaba siquiera que estuviese frente al palacio.
SÉPTIMO EPISODIO
Del palacio de la Reina de las Nieves y de lo que luego sucedió
Los muros del castillo eran de nieve compacta, y sus puertas y ventanas estaban hechas de cortantes vientos; había más de cien salones, dispuestos al albur de las ventiscas, y el mayor tenía varias millas de longitud. Los iluminaba la refulgente aurora boreal, y eran todos ellos espaciosos, vacíos, helados y brillantes. Nunca se celebraban fiestas en ellos, ni siquiera un pequeño baile de osos, en que la tempestad hubiera podido actuar de orquesta y los osos polares, andando sobre sus patas traseras, exhibir su porte elegante. Nunca una reunión social, con sus manotazos a la boca y golpes de zarpa; nunca un té de blancas raposas: todo era desierto, inmenso y gélido en los salones de la Reina de las Nieves. Las auroras boreales flameaban tan nítidamente, que podía calcularse con exactitud cuándo estaban en su máximo y en su mínimo. En el centro de aquella interminable sala desierta había un lago helado, roto en mil pedazos, tan iguales entre sí que el conjunto resultaba una verdadera obra de arte. En medio se sentaba la Reina de las Nieves cuando residía en su palacio; decía entonces que estaba sentada en el espejo de la razón, y que éste era el único y el mejor espejo del mundo.
Carlitos estaba amoratado de frío, casi negro; pero no se daba cuenta, pues ella lo había hecho besar por la helada, y su corazón era como un témpano de hielo. Se entretenía arrastrando cortantes pedazos de hielo llanos y yuxtaponiéndolos de todas las maneras posibles para formar con ellos algo determinado, como cuando nosotros combinamos piezas de madera y reconstituimos figuras: lo que llamamos un rompecabezas. El muchacho obtenía diseños extremadamente ingeniosos; era el gran rompecabezas helado de la inteligencia. Para él, aquellas figuras eran perfectas y tenían grandísima importancia; y todo por el granito de hielo que tenía en el ojo. Combinaba figuras que eran una palabra escrita, pero de ningún modo lograba componer el único vocablo que le interesaba: ETERNIDAD. Sin embargo, la Reina de las Nieves le había dicho: - Si consigues componer esta figura, serás señor de ti mismo y te regalaré el mundo entero y un par de patines por añadidura -. Pero no había modo.
- Tengo que marcharme a las tierras cálidas -dijo la Reina de las Nieves-. Quiero echar un vistazo a los pucheros de hierro. Se refería a los volcanes que nosotros llamamos Etna y Vesubio. Les pondré un poquitín de blanco, como corresponde; y además les irá bien a los limones y a las uvas -. Y levantó el vuelo, dejando a Carlos solo en aquella sala helada y enorme, tan lejana, entregado a sus combinaciones con los pedazos de hielo, pensando y cavilando hasta sorberse los sesos. Permanecía inmóvil y envarado; se le hubiera tomado por una estatua de hielo.
Y he aquí que Margarita franqueó la puerta del palacio. Soplaban en él vientos cortantes, pero cuando la niña rezó su oración vespertina, se calmaron como si les entrara sueño; y ella avanzó por las enormes salas frías y desiertas: ¡allí estaba Carlos! Lo reconoció enseguida, se le arrojó al cuello y, abrazándolo fuertemente,
exclamó:
- ¡Carlos! ¡Mi Carlitos querido! ¡Al fin te encontré!
Pero él seguía inmóvil, tieso y frío; y entonces Margarita lloró lágrimas ardientes, que cayeron sobre su pecho y penetraron en su corazón, derritiendo el témpano de hielo y destruyendo el trocito de espejo. Él la miró, y la niña se puso a cantar:
Florecen en el valle las rosas.
¡Bendito seas, Jesús, que las haces tan hermosas!
Entonces Carlos prorrumpió en lágrimas; lloraba de tal modo, que el granito de espejo le salió flotando del ojo. Reconoció a la niña y gritó alborozado:
- ¡Margarita, mi querida Margarita! ¿Dónde estuviste todo este tiempo? ¿Y dónde he estado yo? -. Y miraba a su alrededor-. ¡Qué frío hace aquí! ¡Qué grande es esto y qué desierto! -. Y se agarraba a Margarita, que de alegría reía y lloraba a la vez. El espectáculo era tan conmovedor, que hasta los témpanos se pusieron a bailar, y cuando se sintieron cansados y volvieron a echarse, lo hicieron formando la palabra que, según la Reina de las Nieves, podía hacerlo señor de sí mismo y darle el mundo entero y un par de patines además.
Margarita lo besó en las mejillas, y éstas cobraron color; lo besó en los ojos, que se volvieron brillantes como los de ella; lo besó en las manos y los pies, y el niño quedó sano y contento. Ya podía volver la Reina de las Nieves; su carta de emancipación quedaba escrita con relucientes témpanos de hielo.
Cogidos de la mano, los niños salieron del enorme palacio, hablando de la abuelita y de las rosas del tejado; y dondequiera que fuesen, al punto amainaba el viento y salía el sol. Al llegar al arbusto de las bayas rotas, vieron al reno que los aguardaba, en compañía de una hembra con las ubres llenas, que dio a los niños su tibia leche y los besó en la boca. Acto seguido condujeron a Carlos y Margarita a la casa de la mujer finesa, en cuya caldeada habitación se reconfortaron, y la mujer les indicó el camino de su patria. Hicieron también escala en la choza de la lapona, que entretanto había cosido vestidos para ellos y reparado sus trineos.
La pareja de renos, saltando a su lado, los siguió hasta la frontera del país, donde brotaba la primera hierba; allí se despidieron de los animales y de la lapona.
- ¡Adiós! -se dijeron todos-. Y las primeras avecillas piaron, el bosque tenía yemas verdes, y de su espesor salió un soberbio caballo, que Margarita reconoció - era el que había tirado de la dorada carroza -, montado por una muchacha que llevaba la cabeza cubierta con un rojo y reluciente gorro, y pistolas al cinto. Era la hija de los bandidos, que harta de los suyos, se dirigía hacia el Norte, resuelta a encaminarse luego a otras regiones si aquélla no la convencía. Reconoció inmediatamente a Margarita, y ésta a ella, con gran alegría de ambas.
- ¡Valiente mocito, que se marchó tan lejos! -dijo a Carlitos- Me gustaría saber si te mereces que vayan a buscarte al fin del mundo.
Pero Margarita, dándole unos golpecitos en las mejillas, le preguntó por el príncipe y la princesa.
- Se fueron a otras tierras -dijo la muchacha.
- ¿Y la corneja?
- La corneja murió. Ahora la domesticada es viuda y va con un hilo de lana negra en la pata; no hace más que lamentarse, aunque todo es comedia. Pero cuéntame qué fue de ti y cómo lo pescaste.
Margarita y Carlos se lo contaron.
- ¡Y colorín colorado, vuestro cuento se ha acabado! -dijo la pequeña bandolera; y, cogiendo a los dos de la mano, les prometió visitarlos si algún día iba a su ciudad; dicho esto, se marchó por esos mundos.
Carlos y Margarita continuaron cogidos de la mano, y, según avanzaban, surgía la primavera con flores y follaje; las campanas de las iglesias repicaban, y los niños reconocieron las altas torres y la gran ciudad natal. Se dirigieron a la puerta de la abuelita, subieron las escaleras y entraron en el cuarto, donde todo seguía como antes, en su mismo lugar. El reloj decía "¡tic, tac!", y las agujas giraban; pero al pasar la puerta se dieron cuenta de que se habían vuelto personas mayores. Las rosas del terrado florecían entrando, por la abierta ventana, y a su lado estaban aún sus sillitas de niños, Carlos y Margarita se sentaron cada cual en la suya, sin soltarse las manos. Habían olvidado, como si hubiese sido un sueño de pesadilla, la magnificencia gélida y desierta del palacio de la Reina de las Nieves. La abuelita, sentada a la clara luz del sol de Dios, leía la Biblia en voz alta: "Si no os volvéis como los niños, no entraréis en el reino de los cielos".
Carlos y Margarita se miraron a los ojos y de pronto comprendieron la vieja canción:
Florecen en el valle las rosas.
¡Bendito seas, Jesús, que las haces tan hermosas!
Y permanecieron sentados, mayores y, sin embargo, niños, niños por el corazón. Y llegó el verano, el verano caluroso y bendito.