Le soprascarpe della felicità


Los chanclos de la suerte


1. L'inizio
A Copenaghen, in 0stergade, in una casa non lontano da Kongensnytorv, c'era una grande festa; ogni tanto bisogna farle, così non ci si pensa più e si viene invitati dagli altri. Metà degli ospiti era già seduta ai tavoli da gioco, l'altra metà aspettava che la padrona di casa dicesse: "Adesso dobbiamo trovare qualcosa da fare!." Si stava lì e la conversazione proseguiva in qualche modo. Tra l'altro il discorso era caduto sul Medioevo; alcuni lo consideravano un'epoca migliore della nostra; quando il consigliere Knap sostenne con forza questa opinione, subito anche la padrona di casa fu d'accordo e entrambi parlarono male di quello che 0rsted aveva scritto nell"'Almanacco dei tempi vecchi e nuovi," in cui il nostro periodo era presentato come il migliore. Il consigliere considerava il tempo di re Giovanni come il più delizioso e il più felice.
Mentre tutti continuano a chiacchierare a favore o contro interrotti soltanto un attimo dall'arrivo del giornale nel quale non si trovò però nulla che valesse la pena di leggere, noi usciamo nell'anticamera, dove si trovavano i soprabiti, i bastoni, gli ombrelli e le soprascarpe. Vi si trovavano anche una donna giovane e una anziana; si poteva pensare che fossero giunte al seguito di una signora, o di una signorina o di una vedova, ma guardandole più attentamente si capiva subito che non erano normali cameriere, perché avevano le mani troppo ben curate, portamento e gesti troppo regali e anche i vestiti erano di taglio curato e originale. Erano in realtà due fate: la più giovane non era proprio la fata della felicità, ma una delle cameriere delle sue damigelle, e doveva distribuire i doni minori della felicità; quella più anziana invece che sembrava molto seria, era il dolore, e andava sempre di persona a compiere le sue missioni, così era sicura che venissero eseguite.
Si raccontavano che cosa avevano fatto quel giorno. La cameriera di una delle damigelle della felicità, aveva compiuto soltanto missioni insignificanti: raccontava di aver salvato un cappello nuovo da un acquazzone, di aver procurato a una persona importante il saluto di una nobile nullità o qualcosa di simile; ma quello che le mancava era una cosa veramente straordinaria.
"Devo aggiungere" disse "che oggi è il mio compleanno e in dono mi sono state date soprascarpe che devo dare all'umanità. Hanno la facoltà di portare in un attimo colui che le indossa nel luogo e nel tempo che preferisce, e qualunque desiderio riguardante il periodo o il luogo viene immediatamente esaudito; per una volta almeno quell'uomo sarà felice."
"Sì, lo credi tu!" disse il dolore "sarà sicuramente infelice e benedirà il momento in cui si libererà di quelle soprascarpe!"
"Che cosa vuoi dire?" chiese l'altra. "Ora le metto qui vicino alla porta, chi calzerà queste al posto delle sue sarà felice."
Questa fu la loro conversazione.
2. Che cosa capitò al consigliere
Era tardi; il consigliere Knap, sprofondato col pensiero nel tempo di re Giovanni, volle andare a casa e fu proprio lui che al posto delle sue soprascarpe si mise quelle della felicità, e con quelle uscì in Ostergade; ma dalla forza magica di quelle soprascarpe venne trasportato indietro nel periodo di re Giovanni, e si trovò con i piedi immersi nel fango e nella poltiglia della strada, dato che in quei tempi non avevano ancora l'asfalto.
"È terribile il sudiciume che c'è qui!" esclamò il consigliere. "Il marciapiede è sparito e tutti i lampioni sono spenti!"
La luna non era ancora alta nel cielo, l'aria poi era molto pesante, tutt'intorno era buio. All'angolo più vicino c'era però appesa una lucina, proprio davanti all'immagine di una Madonna, ma quella luce serviva a poco, e lui la notò soltanto quando vi si trovò proprio davanti, e lo sguardo gli cadde su quell'immagine dipinta della Madre col Bambino.
"Forse è lo studio di qualche artista" pensò "e si sono dimenticati di ritirare l'insegna."
Della gente vestita secondo le usanze del tempo gli passò davanti.
"Accidenti come sono vestiti! Vengono sicuramente da una festa mascherata!"
Improvvisamente si sentirono tamburi e pifferi, intense torce luccicarono, il consigliere si fermò e vide passare uno stranissimo corteo. Davanti a tutti c'era una truppa di suonatori di tamburo, che sapevano usare proprio bene il loro strumento, dietro di loro seguivano soldati con archi e balestre. La persona più importante del corteo era un uomo di chiesa. Sorpreso, il consigliere chiese che cosa significasse quel corteo e chi fosse quell'uomo.
"È il vescovo della Selandia" gli risposero.
"Oh, Signore, che cosa è successo al vescovo!" sospirò il consigliere scuotendo la testa: non poteva certo essere il vescovo!
Continuando a pensare e senza guardare né a destra né a sinistra, il consigliere si incamminò lungo 0stergade fino alla Piazza del Ponte Alto. Il ponte che porta al castello non riuscì a trovarlo, si trovò su un lato di un fiumiciattolo e alla fine vide due persone con una barca.
"Il signore vuole essere trasportato all'isola?" chiesero.
"All'isola?" esclamò il consigliere, che naturalmente non sapeva in quale periodo si trovasse. "Voglio andare a Christianshavn, in Torvegade!"
Quei due lo osservarono.
"Ditemi semplicemente dove si trova il ponte" chiese lui. "È uno scandalo che non ci sia acceso nessun lampione, e poi c'è un tale pantano che sembra di essere in una palude!"
Quanto più parlava con quegli uomini della barca, tanto più questi gli diventavano incomprensibili.
"Non capisco il vostro dialetto di Bornholm!" disse infine arrabbiandosi, e voltò loro le spalle. Il ponte però non lo trovò e neppure un parapetto! "È uno scandalo! Tutto è in uno stato!" si disse. Non aveva mai trovato il tempo in cui viveva misero come quella sera.
"Credo che prenderò una carrozza!" pensò, ma dov'erano le carrozze? Non se ne vedeva nessuna. "Tornerò indietro a Kongensnvtorv, là ci saranno certamente delle carrozze ferme; altrimenti non arriverò mai a Christianshavn!"
S'incamminò verso 0stergade e era quasi arrivato, quando apparve la luna.
"Oh, Signore! Che cos'è quell'impalcatura che hanno montato?" si chiese guardando 0sterport che in quel tempo aveva una porta proprio in fondo a 0stergade.
Alla fine trovò un cancelletto e lo attraversò giungendo alla nostra Nytorv, ma allora era una grande distesa di erba: vi spuntava qualche singolo cespuglio e di traverso passava un largo canale o un fiumiciattolo. Vi si trovavano orribili catapecchie di legno fatte per i marinai di Halland, che avevano dato il nome a quel corso d'acqua, proprio sul lato opposto del fiumiciattolo.
"O questa è la Fata Morgana, come si dice, o io sono ubriaco!" si lamentò il consigliere. "Ma che cos'era quello? Ma che roba era?"
Tornò indietro con la convinzione di essere malato, ma prima di rientrare nella strada guardò con più attenzione quelle case: la maggior parte aveva travi esterne e molte avevano il tetto di paglia.
"No, non sto proprio bene!" sospirò. "Ho bevuto solo un bicchiere di punch, ma non lo sopporto. E poi è stata proprio una brutta idea darci il punch insieme al salmone caldo; devo dirlo alla padrona di casa. Dovrei tornare indietro e far sapere loro come sto. Ma che vergogna! Chissà se sono ancora svegli?"
Cercò la casa, ma non la trovò.
"È terribile, non riconosco più 0stergade! Non c'è nemmeno un negozio. lo vedo misere e vecchie catapecchie come se mi trovassi a Roskilde o a Ringsted. Ah, sono malato! Ma non serve a nulla vergognarsi. Dove diavolo è finita la casa di quella gente? Non è più la stessa. Ma là dentro ci sono delle persone, oh, sono certamente malato!"
Si trovò vicino a una porta socchiusa da cui usciva la luce. Era una locanda di quel tempo, una specie di birreria. Il locale era arredato con mobili pesanti, come quelli in uso nell'Holstein; c'era brava gente; marinai, cittadini di Copenaghen e un paio di uomini dotti si trovavano lì a discutere intorno ai loro boccali e notarono appena colui che stava entrando.
"Mi perdoni" disse il consigliere all'ostessa che gli stava venendo incontro "ma sto tanto male! Vuole per favore procurarmi una carrozza per andare a Christianshavn?"
La donna lo guardò e scosse la testa; poi gli si rivolse in tedesco. Il consigliere pensò allora che lei non conoscesse il danese, e ripetè la richiesta in tedesco; questo, e i vestiti da lui indossati, confermarono a quella donna che si trattava di uno straniero; però capì subito che stava male e gli portò un boccale d'acqua un po' salmastra che era stata attinta dal pozzo.
Il consigliere si mise la testa fra le mani, respirò profondamente e meditò su tutte quelle strane cose che si vedeva attorno.
"Questo è il giornale di questa sera?" chiese tanto per dire qualcosa, quando vide la donna con un grande foglio di carta.
Lei non capì, ma gli diede quel foglio, era un'incisione su legno raffigurante un miraggio che era stato visto fuori dalla città di Colonia.
"È molto vecchio!" esclamò il consigliere, e si entusiasmo nel vedere un reperto così vecchio. "Come avete fatto a avere questo rarissimo foglio? È molto interessante, sebbene il tutto sia una favola. Ora si spiegano questi miraggi con l'aurora boreale, ma probabilmente c'entra anche l'elettricità!"
Quelli che gli sedevano vicino e che ascoltavano il suo discorso, lo guardarono meravigliati; uno di loro poi si alzò, si tolse con rispetto il cappello e disse con un viso molto serio: "Voi siete certo una persona molto istruita, Monsieur".
"Oh, no!" rispose il consigliere "so parlare un po' di tutto, come si dovrebbe saper fare."
"La modestia è una bella virtù" disse quell'uomo "del resto dopo il suo discorso io devo dìremihi secus videtur , e quindi sospendo volentieri il mioJudicium ."
"Posso chiederle con chi ho il piacere di parlare?" chiese il consigliere.
"Io sono baccelliere della Sacra Scrittura" rispose l'uomo.
La risposta soddisfece il cancelliere, il titolo spiegava il suo abbigliamento. "Certamente" pensò tra sé "è un vecchio maestro di una scuola di campagna, uno strano tipo, come ancora se ne incontrano nello Jutland."
"Questo non è unlocus docendi " cominciò l'uomo "però le chiedo di sforzarsi di parlare, lei ha certo una grande conoscenza delle cose antiche."
"Sì, certo" rispose il consigliere. "Io leggo volentieri tutti quei vecchi scritti utili, ma mi piace anche leggere quelli più nuovi; non però le storie di tutti i giorni, di quelle ne abbiamo abbastanza nella realtà!"
"Le storie di tutti i giorni?" chiese il nostro baccelliere.
"Sì, intendo questi nuovi romanzi che ci sono adesso."
L'uomo sorrise. "Oh, c'è comunque un grande ingegno in quelli; vengono letti persino a corte! Il re si diverte moltissimo col romanzo di Iffvent e Gaudian che tratta di Re Artù e dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda; addirittura ha scherzato sull'argomento con i suoi cortigiani!"
"Quello non l'ho ancora letto" disse il consigliere "deve essere abbastanza nuovo, l'ha senz'altro pubblicato Heiberg."
"No" rispose l'uomo "non è stato pubblicato da Heiberg, ma da Godfed von Ghemen."
"Ah quello è l'autore!" esclamò il consigliere "è un nome molto vecchio. È lo stesso nome del primo stampatore che abbiamo avuto in Danimarca."
"Sì, è il nostro primo stampatore" annuì l'uomo. Il discorso proseguiva bene; uno di quei bravi cittadini parlò della terribile pestilenza che c'era stata qualche anno prima, e intendeva nel 1484, il consigliere invece pensava che si parlasse del colera, e così il discorso filava. La guerra con i corsari del 1190 era tanto recente che se ne dovette parlare; quelli raccontarono che i corsari inglesi avevano catturato le navi nella rada, e il consigliere che conosceva molto bene gli avvenimenti del 1801, si mise a parlar male degli inglesi con grande passione. Ma il resto del discorso non andò altrettanto bene; ogni momento gli interlocutori riproponevano uno stile troppo solenne; quel bravo baccelliere era troppo ignorante e le più semplici affermazioni del consigliere a lui sembravano troppo fantastiche e azzardate. Allora si guardavano, e quando proprio non si capivano il baccelliere cominciava a parlare in latino, perché pensava così di essere capito meglio, ma non serviva a nulla.
"Come si sente adesso?" chiese la padrona, tirando il consigliere per la manica; lui tornò in sé, perché parlando aveva dimenticato tutto quel che gli era successo.
"Oh, Signore, dove mi trovo!" esclamò, e gli vennero le vertigini solo al pensiero.
"Dobbiamo bere del chiaretto! Idromele e birra di Brema" gridò uno degli ospiti "e lei deve bere con noi."
Entrarono due fanciulle, una con un cappellino a due colori, versarono da bere e s'inchinarono. Il consigliere sentì i brividi alla schiena.
"Che cos'è? che cos'è?" esclamò, ma fu costretto a bere con gli altri; quelli lo afferrarono e lui si disperò, e quando uno di loro disse che era ubriaco, non mise affatto in dubbio le parole di quell'uomo; chiese semplicemente di procurargli una carrozza, ma tutti credettero che stesse parlando russo.
Non si era mai trovato in una compagnia così semplice e rozza. Sembrava persino che il paese fosse tornato ai tempi del paganesimo. "Questo è il momento più terribile della mia vita" pensò. Ma in quel momento pensò di infilarsi sotto il tavolo, di camminare carponi verso la porta e così cercare di uscire, ma gli altri capirono quello che voleva fare e lo afferrarono per le gambe, e così, per sua fortuna, perse le soprascarpe e subito si sciolse l'incantesimo.
Il consigliere ora vedeva molto chiaramente davanti a sé un lampione acceso, e dietro una grande casa che riconobbe, poi riconobbe anche le case vicine; era 0stergade, proprio come noi tutti la conosciamo. Lui si trovava sdraiato con le gambe contro un portone e lì di fronte c'era il guardiano notturno che dormiva.
"Santo cielo! sono stato qui sdraiato per strada a sognare!" esclamò lui. "Sì, questa è 0stergade! Ah, come è benedetta quella luce, e che colori! È proprio terribile: che effetti ha su di me un bicchiere di punch!"
Due minuti dopo si trovava in una carrozza che lo portò a Christianshavn; e pensando alla paura e alla miseria che aveva provato lodava di cuore quella felice realtà, il nostro tempo, che con tutte le sue mancanze era molto migliore di quello in cui era appena stato; e questo era un discorso davvero ragionevole!
3. Le avventure del guardiano notturno
"Guarda, c'è un paio di soprascarpe!" disse il guardiano notturno "sono senza dubbio del tenente che abita qui sopra. Stanno proprio vicino alla sua porta!"
Quel brav'uomo avrebbe suonato al tenente per consegnargliele, dato che c'era ancora la luce accesa, ma non voleva svegliare le altre persone della casa e perciò lasciò perdere.
"Devono essere proprio belle calde da portare ai piedi!" pensò. "Sono di una pelle molto morbida!" E gli andavano proprio bene. "Com'è strano il mondo! Lui ora potrebbe andarsene a letto, e invece cosa fa? Cammina avanti e indietro per la stanza! E è una persona fortunata; non ha né moglie né bambini. Ogni sera è in società; se solo fossi lui, sarei un uomo felice!"
Mentre esprimeva questo suo desiderio, le soprascarpe della felicità che aveva ai piedi agirono immediatamente: la guardia notturna si trovò nella persona e nei pensieri del tenente. Si trovò nella stanza a tenere tra le dita un piccolo foglio rosa su cui c'era una poesia, una poesia scritta dal tenente stesso: non c'è nessuno che nella propria vita non abbia avuto voglia di poetare e non abbia scritto i suoi pensieri che così si sono trasformati in versi. Lì c'era scritto:
Se solo fossi ricco! pregai molte volte, quando ancora ero un bambinetto. Se solo fossi ricco, diventerei ufficiale, avrei una sciabola, l'uniforme e una piuma. Quel tempo poi venne, e io divenni ufficiale, ma non divenni mai ricco, purtroppo Mi aiutasse il Signore!
Felice e giovane, mi trovavo di sera,
una fanciulla di sette anni mi baciava la bocca,
perché ero ricco di fiabe e di racconti,
ma povero ero di denari;
ma la fanciulla era interessata solo alle favole,
di quelle ero ricco, ma non di oro,
e questo il Signore lo sa!
Se solo fossi ricco! è finita la mia preghiera a Dio,
ora la bimba di sette anni è cresciuta,
è così bella, intelligente, buona,
se lei capisse la favola del mio cuore,
se lei, come prima, mi fosse amica
ma io sono povero, e perciò taccio, così vuole il Signore.
Se io fossi ricco di consolazione e di pace,
allora il mio dolore non sarebbe stato scritto sulla carta!
Tu, che io amo, se tu mi capissi,
leggi questo, come una poesia degli anni della gioventù!
Ma è meglio se tu non lo comprendi,
io sono povero, il mio futuro è buio,
che il Signore ti benedica!
Sì, si scrivono questi versi quando si è innamorati, ma un uomo intelligente poi non li pubblica. Il fatto di essere tenente, l'amore, la povertà, sono un triangolo, o meglio, metà del dado spezzato della felicità. Il tenente provava tutto questo, e appoggiava la testa sul davanzale della finestra sospirando profondamente: "Quel povero guardiano laggiù sulla strada è molto più felice di me! Lui non sa che cos'è la nostalgia, lui ha una casa, una moglie e dei bambini che piangono con lui le sue pene e gioiscono alla sua gioia! Ah, sarei molto più felice di quello che sono, se potessi cambiare posto con lui, perché lui è sicuramente più felice di me!."
In quel momento il guardiano notturno tornò a far la guardia: le soprascarpe della felicità lo avevano reso tenente, come abbiamo visto, ma lui si era sentito così poco soddisfatto che voleva tornare a essere quello che era. Quindi il guardiano notturno tornò a fare il guardiano.
"Che brutto sogno!" esclamò "ma era molto strano. Mi sembrava di essere il tenente che c'è lassù e non era affatto divertente. Avevo nostalgia di mia moglie e dei bambini che sono sempre pronti a ricoprirmi di baci!"
Tornò a sedersi e lasciò cadere la testa; il sogno non voleva levarsi dalla mente, e lui indossava ancora quelle soprascarpe. In quel momento una stella cadente solcò il cielo.
"È caduta" disse "ma ce ne sono ancora! Mi piacerebbe proprio vedere quelle cose più da vicino, soprattutto la luna, perché quella non può certo scappare dalle mani. Quando moriamo, così almeno racconta lo studente a cui mia moglie fa le pulizie, voliamo da una stella all'altra. È senz'altro una menzogna, ma potrebbe anche essere vero. Mi piacerebbe fare un saltino lassù, ma il corpo può anche restare qui sulla scala!"
Bisogna essere molto accorti nell'esprimere certi pensieri nel mondo, ma bisognerebbe stare ancora più attenti quando si hanno le soprascarpe della felicità ai piedi.
Sentite che cosa accadde al guardiano notturno.
Per quanto riguarda noi uomini, conosciamo quasi tutte le velocità del vapore acqueo, le abbiamo provate sia sul treno che con le navi che solcano il mare, eppure quella è come la camminata di un pigrone o la marcia di una lumaca, in rapporto alla velocità della luce; questa va 19 milioni di volte più veloce della migliore prestazione in una gara, e l'elettricità è ancora più veloce. La morte è una scossa elettrica che riceviamo nel cuore; sulle ali dell'elettricità l'anima liberata vola via. In otto minuti e pochi secondi la luce del sole compie un viaggio di oltre 20 milioni di miglia; con la velocità dell'elettricità l'anima ha bisogno di pochissimi minuti per fare lo stesso percorso. Lo spazio tra i vari corpi celesti non è, a quella velocità, più grande dello spazio che c'è tra noi e la casa dei nostri amici, anche se quelli abitano molto vicino a noi. Questa scossa elettrica al cuore però ci toglie l'uso del corpo; naturalmente se non abbiamo, come il guardiano notturno, le soprascarpe della felicità ai piedi.
In pochi secondi il guardiano notturno aveva percorso le 52.000 miglia fino alla luna che, come si sa, è costituita di un materiale molto più leggero della terra, e che è soffice, quasi come la neve appena caduta.
Si trovò su uno di quegli innumerevoli crateri che conosciamo dalla grande carta della luna del dottor Madler; questa la conosci, vero? Nella parte interna il cratere sprofondava come un calice, per un intero miglio danese; in fondo si trovava una città che aveva l'aspetto di un bianco d'uovo in un bicchiere d'acqua, molle e piena di torri, di cupole e balconi a forma di vela, trasparenti e fluttuanti nell'aria leggera; la nostra terra era sospesa, come un grande globo di rosso fuoco, sopra la testa del guardiano.
C'erano molte creature e tutte della specie che noi chiamiamo umana, ma avevano un aspetto diverso dal nostro; avevano una loro lingua, nessuno poteva pretendere che l'anima del guardiano notturno sapesse capirla, eppure lui sapeva.
L'anima del guardiano capiva molto bene la lingua degli abitanti della luna. Stavano discutendo della nostra terra e mettevano in dubbio che fosse abitata, perché l'aria era troppo pesante affinché una qualunque creatura lunare potesse abitarvi. Secondo loro solo la luna era abitata da esseri viventi, era l'unico corpo celeste dove abitavano le vecchie popolazioni del cielo.
Ma adesso torniamo a 0stergade a vedere come stava il corpo del guardiano. Il bastone gli era caduto di mano e gli occhi guardavano verso la luna alla ricerca di quell'anima onesta che se n'era andata lassù.
"Che ore sono, guardiano?" chiese un passante. Ma il guardiano non rispose, così quello gli diede un pizzicotto sul naso e gli fece perdere l'equilibrio. Il corpo finì lungo e disteso sulla strada: l'uomo era morto. Quello che lo aveva pizzicato si spaventò terribilmente; il guardiano era morto e morto restava; fu data la notizia e se ne parlò molto, al mattino, poi portarono il corpo in ospedale.
Sarebbe stato proprio un bello spasso per l'anima, una volta tornata indietro, cercare il suo corpo in 0stergade, come certamente avrebbe fatto, senza trovarlo. Probabilmente sarebbe andata per prima cosa alla polizia, poi all'ufficio informazioni e poi sicuramente all'ufficio oggetti smarriti, e solo alla fine all'ospedale. Ma possiamo consolarci, perché l'anima è intelligente, quando è da sola, è il corpo che la rende stupida.
Come ho già detto, il corpo del guardiano giunse all'ospedale, e fu portato in un locale per essere lavato. Per prima cosa naturalmente gli tolsero le soprascarpe e subito l'anima dovette ritornare lì; si diresse immediatamente verso il corpo e in un attimo tornò la vita in quell'uomo. Egli assicurò di aver passato la più terribile notte della sua vita; disse che non avrebbe voluto provare le stesse sensazioni nemmeno per due marchi, ma ormai tutto era passato.
Lo stesso giorno fu dimesso dall'ospedale, ma le soprascarpe rimasero lì.
4. Storia di una testa. Una recita. Un viaggio veramente straordinario
Ogni abitante di Copenaghen sa bene come è l'ingresso del Frederiks Hospital, ma dato che probabilmente anche alcuni lettori che non abitano a Copenaghen leggeranno questa storia, dovremo darne una breve descrizione.
L'ospedale è separato dalla strada da una cancellata piuttosto alta le cui sbarre di ferro, abbastanza grosse, sono così lontane fra loro che si racconta che dottorini molto sottili siano riusciti a infilarsi tra queste per fare qualche breve visita fuori dall'ospedale.
La parte del corpo che però è più diffìcile da portare fuori è sempre stata la testa; qui, come spesso nel mondo, i più fortunati erano quelli con la testa piccola. Questo dovrebbe bastare come introduzione.
Uno dei giovani volontari di cui si potrebbe dire che avesse una gran testa, ma solo per quanto riguardava l'aspetto, era di turno quella sera; e pioveva terribilmente. Eppure, nonostante questi due ostacoli, lui voleva uscire, solo per un quarto d'ora, e pensava non fosse qualcosa che valeva la pena di confidare al portiere, quando poteva passare tra quelle sbarre di ferro. Lì vicino c'erano le soprascarpe che la guardia notturna aveva dimenticato; naturalmente il dottorino non sapeva che fossero quelle della felicità: le infilò perché pensava sarebbero state ottime con quel tempo. Ora doveva cercare di passare attraverso le sbarre e non aveva mai provato prima di allora. Arrivò vicino al cancello.
"Se solo avessi già la testa dall'altra parte!" disse e subito, nonostante fosse molto grossa, la testa passò con facilità e felicemente attraverso le sbarre; era stato merito delle soprascarpe, ma ora doveva passare anche il corpo.
"Oh, sono troppo grasso!" esclamò "pensavo che la testa fosse la cosa peggiore, ma adesso non riesco a passare."
Allora volle riportare indietro la testa, ma non ci riuscì. Poteva tranquillamente muovere il collo, ma era l'unica cosa che riusciva a fare. Per prima cosa si arrabbiò, poi fu preso da una depressione profonda. Le soprascarpe della felicità lo avevano messo in una posizione molto brutta, e sfortunatamente non pensava a desiderare di essere libero; no, cercava di agire e così non riusciva a levarsi da quel posto. La pioggia continuava a scrosciare, ma non si vedeva nessuno per la strada. Il campanello era irraggiungibile, come poteva liberarsi? Si disse che sarebbe rimasto lì fino al mattino, poi avrebbero dovuto chiamare un fabbro per segare le sbarre di ferro, ma non sarebbe accaduto molto in fretta; prima sarebbero passati tutti gli scolaretti vestiti di blu, poi tutti i marinai sarebbero arrivati per vederlo lì intrappolato, ci sarebbe certo stata una folla molto maggiore che per la gigantesca agave dell'anno scorso. "Oh! il sangue mi va alla testa, così impazzisco! Sì, impazzisco! Ah, se solo fossi libero di nuovo, allora starci certo meglio!"
Ecco questo lo avrebbe dovuto dire un po' prima; nello stesso momento in cui il pensiero venne espresso si trovò con la testa libera e si precipitò nella sua stanza, fuori di sé per lo spavento che le soprascarpe della felicità gli avevano procurato.
Ma non dobbiamo credere che tutto fosse finito, anzi ora viene il peggio.
Passò la notte e il giorno successivo e nessuno venne a prendere le soprascarpe.
Di sera doveva esserci una rappresentazione nel piccolo teatro di Kannikestraede. Il locale era pieno zeppo; tra i diversi numeri veniva recitata una nuova poesia. Ora l'ascolteremo. Il titolo era
GLI OCCHIALI DELLA NONNA
L'intelligenza della mia nonna è conosciuta.
Se si fosse nei tempi passati, lei verrebbe certo bruciata.
Conosce tutto quello che accade, sì, ancora di più,
vede persino nell'anno venturo, sì,
ma non vuole dirlo chiaramente.
Che cosa accadrà quindi l'anno prossimo?
Che accadrà di strano? Sì, mi piacerebbe vedere
il mio destino, quello dell'arte e del nostro paese,
ma la nonna non vuole che venga detto.
Io l'ho tormentata tanto che l'ho convinta,
prima è rimasta zitta, poi si è fatta piccola,
e mi ha fatto un lungo discorso senza senso.
Io infatti sono il suo preferito!
Per questa volta esaudirò il tuo desiderio,
cominciò, dandomi i suoi occhiali.
Ora vai in un luogo, a tua scelta,
in un luogo dove ci siano molte persone,
dove tu possa vederle, mettiti in qualche posto,
e guarda quella folla attraverso i miei occhiali;
subito, tutti quanti, credimi,
appariranno come un gioco di carte aperto sul tavolo;
con questi potrai prevedere quello che accadrà!
Io la ringraziai e corsi via, volevo vedere,
ma pensai, dove si raduna tanta gente?
A Langelinie? Lì ci si prende un malanno.
In 0stergade? Oh, lì c'è un tale fango!
A teatro? Questa è un'idea.
Lo spettacolo della sera è proprio l'ideale.
E eccomi qui! Ora mi presento.
Permettetemi di usare gli occhiali della nonna
solo per vedere, ma non me ne vado!
vedere se voi apparite come un gioco di carte,
dal quale io possa prevedere quel che il tempo riserba.
Io interpreto il vostro silenzio come un'affermazione,
sarete resi partecipi di un grande segreto.
Qui siamo tutti in gioco. Io guardo per voi, per me,
per il paese e per il nostro regno.
Ora voglio vedere quello che dicono le carte.
E si mise gli occhiali.)
Oh, è vero! No, adesso devo ridere!
Oh, se solo voleste venir su a vedere anche voi!
Oh, quante carte di re e di fanti!
e le donne di cuori, c'è tutta la serie,
e poi le carte nere, le picche e i fiori.
Ora ho proprio una bella vista!
Io vedo la dama di picche bella grossa
che rivolge i suoi pensieri al fante di quadri.
E questa vista mi rende ubriaco!
Ci sono molti soldi qui in teatro,
e stranieri che vengono dall'altra parte del mondo.
Ma non è quello che volevamo sapere.
Sulle classi sociali? Vediamo... nel futuro.
Ma di ciò si leggerà in seguito.
Se adesso parlassi, danneggerei la rivista,
e io non voglio togliere il meglio dal piatto.
E il teatro? Che novità, il gusto, la tonalità?
no, voglio stare in buoni rapporti col direttore.
E il mio futuro? E già, voi sapete che le nostre cose
sono molto care al nostro cuore!
Lo vedo! Non posso dire cosa vedo, ma voi lo saprete non appena accadrà. Chi è il più felice di noi quaggiù?
11 più felice? Posso trovarlo facilmente. E no, potrebbe facilmente dar fastidio, probabilmente rattristerebbe molti!
Chi vivrà più a lungo? Quella donna laggiù o quel signore?
No, se lo rivelassi sarebbe molto peggio!
Devo rivelare qualcosa? No! Qualcosa? No! Qualcosa? No!
Be', alla fine non lo so più neppure io.
Sono imbarazzato, è facile ferire qualcuno,
ora vedo quello che voi credete e pensate,
io tacerò con la mia capacità di prevedere.
Voi credete? No! Che cosa? Qui intorno
credete che finirà con un bel niente.
Sapete certamente che non otterrete nulla.
Allora taccio, solenne assemblea,
vi lascerò le vostre opinioni!
La poesia venne recitata splendidamente e il recitante ebbe grande successo. Tra gli spettatori c'era anche il volontario dell'ospedale, che sembrava avesse dimenticato l'avventura della notte precedente, ma le soprascarpe le aveva ancora ai piedi perché non erano state ritirate e, dato che c'era fango per la strada, gli tornavano utili.
A lui la poesia piacque.
Pensò molto a quell'idea, gli sarebbe piaciuto avere occhiali simili, forse, se si fossero usati nel modo giusto, si sarebbe potuta vedere la gente proprio nel cuore, e quello sarebbe stato molto più interessante, pensava, che non vedere quello che sarebbe accaduto l'anno prossimo, perché questo si viene comunque a sapere, mentre il resto non si conosce mai. "Mi piacerebbe tanto poter guardare nel cuore di tutte quelle signore della prima fila là davanti, sì, dovrebbe essere uno spazio aperto, una specie di negozio; ah, quante cose potrebbero vedere i miei occhi in quel negozio! In quella signora troverei senz'altro una grande commerciante di moda! In quell'altra il negozio sarà vuoto, e dovrà essere ripulito. Ma ci saranno anche negozi rispettabili! Eh sì!" sospirò "ne conosco uno in cui tutto è molto rispettabile, ma dentro c'è già un garzone, e questa è l'unica cosa cattiva del negozio. Da uno o dall'altro si sentirebbe gridare: 'Prego accomodatevi!' sì, mi piacerebbe proprio entrarci, come un piccolo pensiero che passa attraverso i cuori!"
Ecco, queste parole bastarono alle soprascarpe; il volontario divenne sempre più piccolo e cominciò uno stranissimo viaggio proprio in mezzo ai cuori di quelli della prima fila. Il primo cuore in cui passò apparteneva a una signora; ma lui subito credette di essere in un istituto ortopedico, quella casa dove il dottore elimina i difetti della gente e raddrizza le persone; si trovava nella stanza in cui i calchi di gesso degli arti anormali erano appesi alla parete, l'unica differenza era che all'istituto i calchi vengono presi quando il paziente entra, mentre qui nel cuore erano presi e conservati quando le brave persone se n'erano andate. Erano i calchi delle amiche, i loro difetti fisici e spirituali, che qui venivano conservati.
Passò velocemente in un altro cuore di donna, e questo gli sembrò una grande chiesa. Le bianche colombe dell'innocenza volavano intorno all'altare maggiore; si sarebbe inginocchiato volentieri, ma doveva proseguire, entrare in un nuovo cuore, ma ancora sentiva la musica dell'organo e gli sembrava addirittura di essere diventato migliore; si sentì degno di entrare nel nuovo santuario. Questo era una soffitta molto povera dove abitava una madre malata; ma attraverso la finestra aperta entravano i caldi raggi del sole di Dio, belle rose si affacciavano dalla cassetta di legno sul tetto, e due uccelli azzurri come il cielo cantavano pieni di gioia, mentre la madre ammalata implorava la benedizione sulla sua figliola.
Poi lui camminò carponi attraverso una macelleria piena fino all'orlo; vedeva carne e ancora carne, era il cuore di un ricco molto rispettabile il cui nome sicuramente si trova tra le persone importanti.
Poi entrò nel cuore della moglie di questo, e vide una vecchia piccionaia cadente; il ritratto del marito veniva usato come segnavento e era stato collegato con le porte, in modo che queste si aprissero e si chiudessero non appena l'uomo si muoveva.
Poi entrò in uno studio pieno di specchi, come quello che si trova nel Castello di Rosenborg, ma gli specchi ingrandivano terribilmente. In mezzo alla stanza c'era seduto, come un Dalai-Lama, l'insignificante Io di una persona, assorto nell'ammirare la propria grandezza.
Quindi sembrò al dottorino di essere entrato in una casa stretta piena di aghi appuntiti, pensò che fosse il cuore di una vecchia zitella, ma in realtà era quello di un giovane militare che aveva avuto molte decorazioni, uno di quelli che si dicono uomini di spirito e di cuore.
Completamente stordito, il giovane volontario uscì dall'ultimo cuore della fila e non riuscì a rimettere in ordine i suoi pensieri, gli sembrò che la sua fantasia, troppo ricca, gli avesse preso la mano.
"Oh, Signore" sospirò "sto certo diventando pazzo! E poi qui fa un caldo insopportabile! Il sangue mi va alla testa!" E allora ricordò quei grandi avvenimenti della sera prima, come la sua testa si era infilata tra le sbarre di ferro dell'ospedale. "È tutta colpa di quello!" pensò. "Devo subito correre ai ripari. Un bagno turco potrebbe essere una buona idea. Se solo mi trovassi già sulla panca più alta!"
E subito si trovò sulla panca più alta in un bagno di vapore, ma era là con tutti i suoi vestiti, con gli stivali e le soprascarpe; e le gocce bollenti di acqua dal soffitto gli cadevano sul viso.
"Ahi!" gridò e si precipitò giù per farsi una doccia. Anche il guardiano si mise a gridare quando vide che c'era un uomo totalmente vestito là dentro.
Il volontario aveva avuto tanto buon senso da sussurrargli: "È una scommessa!" ma la prima cosa che fece, quando tornò nella sua camera, fu di mettersi un gran foglio di carta vetrata sulla schiena e uno sulle spalle, affinché la pazzia uscisse da lui.
Il mattino dopo si ritrovò con la schiena sanguinante, e questo fu tutto quanto guadagnò con le soprascarpe della felicità.
5. La trasformazione del copista
Il guardiano notturno, che noi certamente non abbiamo dimenticato, si ricordò improvvisamente delle soprascarpe che aveva trovato e portato con sé in ospedale; andò a prenderle, ma poiché né il tenente né altri abitanti della strada le riconobbero, furono consegnate alla polizia. "Sembrano proprio le mie soprascarpe!" disse uno dei copisti, che stava osservando gli oggetti smarriti, e le mise accanto alle sue. "Neppure l'occhio di un calzolaio sarebbe in grado di distinguerle!" "Signor copista!" disse un servitore, che entrò con alcune carte.
Il copista si volse, parlò con lui, e quando tutto fu finito si rimise a guardare le soprascarpe; non sapeva più se erano quelle di destra o quelle di sinistra quelle che appartenevano a lui. "Devono essere quelle bagnate!" pensò, ma sbagliava, perché erano invece quella della felicità; naturalmente anche la polizia può sbagliare. Mise nella tasca e sotto il braccio alcune carte che dovevano essere rilette e riscritte a casa; ma era domenica mattina e il tempo era bello, quindi pensò che gli avrebbe fatto bene un giro a Frederiksberg. Così andò laggiù.
Non c'era persona più tranquilla e diligente di questo giovane, quindi fece proprio bene a farsi una passeggiata dopo essere stato seduto tanto a lungo. All'inizio camminò senza pensare a niente, così le soprascarpe non ebbero la possibilità di mostrare la loro forza magica.
Nel viale incontrò un conoscente, un giovane poeta, che gli raccontò che il giorno dopo avrebbe fatto un viaggio.
"Ah, deve partire di nuovo!" disse il copista. "Lei è proprio fortunato, è un uomo libero. Può andarsene dove vuole, noi invece abbiamo una catena al piede."
"Sì, ma è legata all'albero del pane!" rispose il poeta. "Lei non ha certo bisogno di preoccuparsi per il domani, e quando sarà vecchio avrà la pensione."
"Ma lei sta meglio!" ribatté il copista. "Deve essere proprio un piacere starsene lì a poetare! Tutto il mondo le fa i complimenti e lei è padrone di se stesso. Eh, sì, dovrebbe provare a starsene al tribunale con tutte quelle noiose scartoffie!"
Il poeta scosse la testa, anche il copista scosse la testa, ognuno si tenne la propria opinione e si divisero.
"Eh, i poeti, sono proprio gente particolare!" esclamò il copista "mi piacerebbe provare a penetrare in una tale natura, diventare anch'io un poeta, e sono certo che non mi metterei a scrivere piagnistei come fanno gli altri. Poi oggi è proprio un giorno di primavera adatto a un poeta! L'aria è straordinariamente trasparente le nuvole così belle, e c'è un profumo con tutto quel verde! Da molti anni non ho provato quello che provo in questo momento."
Noi già notiamo che è diventato poeta; la cosa non era certo visibile, perché sarebbe assurdo immaginarsi un poeta diverso dagli altri uomini, tra questi ci sono senz'altro nature molto più poetiche di quella di un grande poeta riconosciuto: la differenza sta soltanto nel fatto che il poeta ha una memoria spirituale migliore, può mantenere l'idea e la sensazione finché questa non si è trasformata chiaramente e con precisione in versi, cosa che gli altri non sanno fare. Ma certamente passare da una natura comune a una dotata è sempre un salto e questo il copista l'aveva appena fatto.
"Che delizioso profumo" esclamò "mi ricorda le violette della zia Lone. Già, allora ero ancora un ragazzo. Oh, Signore, per tantissimo tempo non ho mai pensato a quella brava zitella! Abitava proprio dietro alla Borsa, aveva sempre un ramoscello o qualche germoglio verde nell'acqua, non importava quanto fosse rigido l'inverno. Le violette profumavano, mentre io appoggiavo le monetine di rame riscaldate sul vetro gelato e facevo degli spiragli per guardare fuori. Era una meravigliosa prospettiva. Fuori nel canale le navi erano bloccate dal ghiaccio, abbandonate da tutti gli uomini, solo una cornacchia gracchiante costituiva l'equipaggio; ma quando poi giungeva la primavera, allora c'era da fare. Cantando e con grida di Urrà il ghiaccio veniva rotto. Le navi venivano incatramate e attrezzate di nuovo, in modo che potessero dirigersi verso terre straniere; io sono rimasto qui, e sempre dovrò restarci, sempre nell'ufficio della polizia a vedere che gli altri ritirino il passaporto per viaggiare all'estero, questo è il mio destino! Oh!" sospirò profondamente, ma altrettanto improvvisamente si fermò. "Oh Dio, che cosa mi succede? Non avevo mai pensato o provato nulla di simile: dev'essere l'aria di primavera. È un misto di paura e di piacere." Trasse dalla tasca le sue carte. "Queste mi daranno ben altro a cui pensare!" disse, e lasciò scorrere gli occhi sulla prima pagina. "La Signora Sigbrith, tragedia originale in cinque atti" lesse "che cos'è? Ma l'ho scritto io stesso. Ho forse scritto una tragedia?Intrigo sui bastioni oli giorno della preghiera, Vaudeville . Da dove ho preso questa roba? Qualcuno deve averla messa nella mia tasca; qui c'è una lettera." Sì, era del direttore del teatro, quei pezzi erano stati respinti e la lettera non era affatto gentile. "Uhm!" pensò il copista, sedendosi su una panca; i suoi pensieri erano così vivi e il suo cuore così commosso; involontariamente afferrò uno dei fiori che stavano più vicino, era una piccola margherita, molto semplice; quello che un botanico potrebbe dirne solo con molte lezioni, la margherita lo rivelò in un attimo, raccontò il mito della sua nascita, la forza della luce del sole che aveva dischiuso i suoi petali sottili facendoli profumare, poi lui pensò alla lotta della vita, che allo stesso modo risveglia i sentimenti nel nostro petto. L'aria e la luce erano le amanti del fiore, ma la luce era la sua preferita, lei si piegava sempre verso la luce e, quando questa scompariva, raccoglieva i petali e si addormentava nell'abbraccio dell'aria. "È la luce che mi rende bella!" disse il fiore. "Ma l'aria ti permette di respirare!" le sussurrò la voce del poeta.
Lì vicino c'era un ragazzo che batteva con un bastone in una pozzanghera piena di fango; le gocce d'acqua schizzavano tra i rami verdi, il copista pensò a milioni di animali invisibili che con le gocce venivano gettati in alto: per loro doveva essere come per noi venir gettati in alto o sopra le nubi. Il copista, riflettendo a queste cose e a tutto quel cambiamento avvenuto in lui, sorrise. "Sto sognando! Comunque è straordinario. Sognare in modo così veritiero, e sapere che è solo un sogno. Se solo domani potessi ricordarmi tutto quando mi sveglierò adesso mi sembra di essere proprio straordinario! Ho una visione chiara di tutte le cose, mi sento così lucido, ma so che quando domani ricorderò qualcosa, allora mi sembreranno tutte sciocchezze, l'ho già sperimentato prima! Accadrà come con tutte quelle cose meravigliose e intelligenti che si ascoltano e si dicono nel sogno e che sembrano l'oro degli elfi; nel momento in cui uno lo scopre questo appare bello e meraviglioso, ma quando lo si vede di giorno restano solo foglie secche e pietre. Ah!" sospirò tristemente guardando gli uccelli che cantavano, e che saltavano divertiti tra un ramo e l'altro. "Loro stanno certo meglio di me! Volare, volare, è una bella arte, felice colui che è nato capace di farlo! Sì, se potessi ottenere qualcosa, vorrei essere una piccola allodola!"
In quello stesso momento le maniche e le falde dell'uniforme si unirono trasformandosi in ali, i vestiti divennero piume e le soprascarpe zampine. Lui notò tutto questo e si mise a ridere tra sé: "Ecco, adesso posso proprio vedere che sto sognando ma un sogno così strano non l'ho mai fatto prima d'ora!." Volò tra i rami verdi e si mise a cantare, ma non c'era poesia nella sua canzone, perché la natura di poeta era sparita; le soprascarpe potevano, come ognuno che fa qualcosa di buono, compiere solo un azione alla volta, lui aveva voluto essere poeta e lo era diventato; ora voleva diventare un uccellino, ma diventandolo aveva perso le qualità precedenti.
"È proprio bella! di giorno me ne sto negli uffici della polizia tra le scartoffie più concrete del mondo, di notte posso sognare di volare come un'allodola nel giardino di Frederiksberg; ci potrei quasi scrivere un'intera commedia!"
Poi volò giù nell'erba, girò la testa da tutte le parti e batté col becco quei sottili fili d'erba che, paragonati alla sua attuale statura, gli sembravano grandi come le palme del Nord-africa.
Ma un attimo dopo fu notte intorno a lui, gli sembrò che un oggetto enorme gli venisse gettato sopra: era un grande berretto che un ragazzo dei quartieri dei marinai aveva gettato su quell'uccello; poi sopraggiunse una mano che afferrò il copista per la schiena e per le ali, e lui strillò. In preda al terrore del primo momento gridò a voce alta: "Monellaccio senza rispetto! sono un copista degli uffici della polizia!" ma tutto questo alle orecchie del ragazzo suonò come un cip cip. Batté l'uccello sul becco e se ne andò.
Nel viale incontrò due scolari che appartenevano a una classe sociale elevata, ma che, in quanto a cultura, erano gli ultimi della scuola; questi comprarono l'uccello per otto scellini e così il copista arrivò a Copenaghen da una famiglia che abitava a Gothersgade.
"Fortuna che sogno" disse il copista "altrimenti mi sarei arrabbiato! Prima ero poeta, adesso sono un'allodola! Già, è stata la natura del poeta che mi ha fatto diventare uccellino! Ma è una brutta storia, soprattutto quando si cade nelle mani di certi ragazzi. Mi piacerebbe sapere come va a finire!"
I ragazzi lo portarono in una grande stanza elegante; una donna grassa e ridente andò loro incontro; ma non fu affatto contenta di vedere che avevano con sé quel semplice uccello di campo, come lei chiamava l'allodola; comunque per quel giorno avrebbe lasciato correre, dovevano metterlo in quella gabbia vuota che c'era vicino alla finestra! "Farà forse contento il pappagallo" continuò ridendo e accennando a un grande pappagallo verde che si dondolava elegantemente sul suo anello in una meravigliosa gabbia di ottone. "Oggi è il compleanno del pappagallo!" disse poi con un tono stupidamente infantile. "Perciò questo piccolo uccello di campo vuole fargli gli auguri."
II pappagallo non rispose affatto, ma continuò a dondolarsi con grande eleganza avanti e indietro; invece un bel canarino, che l'estate prima era stato portato fin lì dalla sua calda patria profumata, cominciò a cantare a voce alta.
"Strillone!" esclamo la donna gettando un fazzoletto bianco sulla gabbia.
"Cip, cip!" sospirò quello "come nevica!" E con questo sospiro tacque.
Il copista, o meglio, come diceva la donna, l'uccello di campo si trovò in una gabbietta vicino a quel canarino, non lontano dal pappagallo. L'unica espressione umana che quel pappagallo conosceva, e che spesso suonava molto comica, era: "No, siamo uomini!." Tutto il resto che diceva era incomprensibile, proprio come il cinguettio del canarino, ma non per il copista che ora era un uccello come loro e che comprendeva i suoi buoni compagni.
"Io volavo sotto la palma verde e sotto il mandorlo in fiore!" cantava il canarino "volavo con i miei fratelli e sorelle sopra i magnifici fiori e sul lago trasparente come il vetro, dove le piante si riflettevano, piegandosi verso l'acqua; ho visto anche molti bei pappagalli che raccontavano storie divertentissime, lunghe e numerose."
"Erano uccelli selvatici" rispose il pappagallo "non avevano istruzione. No, siamo uomini! Perché non ridi! Se la signora e tutti gli stranieri ne ridono, allora devi farlo anche tu. È un grande difetto non saper godere delle cose divertenti. No, siamo uomini!"
"Oh, ti ricordi quelle belle ragazze che ballavano sotto la tenda montata vicino agli alberi in fiore? Ti ricordi quei dolci frutti e quel succo ristoratore delle erbe selvatiche?"
"Oh, sì!" rispose il pappagallo "ma io qui sto molto meglio! Mi danno da mangiare bene e vengo trattato con rispetto. So di essere intelligente e non pretendo di più. Siamo uomini! Tu sei un'anima di poeta come dicono, io invece ho solide conoscenze e umorismo. Tu hai del genio, ma non hai il buon senso. Raggiungi naturalmente note molto alte, e per questo ti coprono. Ma a me non lo fanno, perché sono costato un po' di più. Faccio impressione col mio becco e posso fare vits, vits! No, siamo uomini!"
"Oh, la mia calda patria in fiore!" cantò il canarino. "Voglio cantare dei tuoi alberi verde scuro, delle tue tranquille baie sul mare dove i rami baciano la trasparente superfìcie dell'acqua, voglio cantare del giubilo di tutti i miei splendenti fratelli e sorelle, là dove cresce la pianta del deserto, il cactus!"
"Lascia stare quei toni piagnucolanti!" gli disse il pappagallo "di' qualcosa di cui si possa ridere! La risata è il segno del più alto stato spirituale. Guarda se un cane o un cavallo sanno ridere: no, sanno piangere, ma non ridere, questo è dato solo agli uomini. Ah, ah!" rise il pappagallo, ripetendo il suo motto: "Siamo uomini, siamo uomini!".
"Tu piccolo uccello danese grigio" disse il canarino "anche tu sei stato catturato! È certamente freddo nei tuoi boschi, ma anche lì c'è la libertà, vola via! Hanno dimenticato di chiudere la porta, e la finestra in fondo è aperta. Vola, vola!"
E così fece il copista, in un attimo fu fuori dalla gabbia, ma nello stesso momento la porta socchiusa che dava nella stanza accanto scricchiolò e entrò il gatto di casa, agile, con splendenti occhi verdi, e si mise a cacciarlo. Il canarino si agitava nella gabbia, il pappagallo batté le ali e gridò: "Siamo uomini!". Il copista si spaventò a morte e volò via attraverso la finestra sulle case e sulle strade; alla fine dovette riposarsi un po'.
La casa lì vicino aveva qualcosa di familiare; una finestra era aperta, lui volò dentro, era casa sua. Così si mise sul tavolo.
"Siamo uomini!" disse senza neppure pensare a quel che diceva, copiando il pappagallo, e nello stesso momento ridivenne copista, ma era seduto sul tavolo.
"Oh Signore!" disse "come ho fatto a salire quassù e poi a addormentarmi? È stato un sogno agitato. Tutto quanto non è che una gran sciocchezza!"
6. Ciò che di meglio le soprascarpe portarono
Il giorno dopo, di mattina presto, quando il copista ancora dormiva, bussarono alla sua porta; era il suo vicino, uno studente di teologia, che entrò.
"Prestami le soprascarpe" disse "è tutto bagnato in giardino ma il sole splende e voglio andar giù a farmi una fumatina."
Si mise le soprascarpe e in un attimo fu giù in giardino dove c'erano un prugno e un pero. Anche se era piccolo, il giardino era un gran tesoro dato che si trovava a Copenaghen.
Lo studente camminò avanti e indietro, erano solo le sei e dalla strada risuonò il corno di un postiglione.
"Oh, viaggiare, viaggiare!" esclamò allora "è la cosa più bella del mondo. È la massima aspirazione dei miei desideri. Sicuramente quella inquietudine che sento si placherebbe. Ma dovrebbe essere lontano! Vorrei vedere la splendida Svizzera, viaggiare in Italia e..."
Per fortuna le soprascarpe agivano immediatamente, altrimenti sarebbe arrivato troppo lontano, sia per se stesso che per noi. Stava viaggiando. Era nel cuore della Svizzera con altre otto persone, pigiato all'interno di una diligenza: aveva mal di testa e sentiva tutta la stanchezza sulla schiena il sangue gli era sceso fino alle gambe, che si erano gonfiate e premevano negli stivali; era in uno stato di dormiveglia. Nella tasca destra aveva una lettera di credito, in quella sinistra il passaporto e sul petto in un piccolo sacchettino di pelle, alcuni luigi d'oro. Ogni volta che sognava gli pareva che uno di quei tesori fosse perduto; per questo si svegliava agitato e il primo movimento che faceva con la mano era un triangolo da destra a sinistra fino al petto, per sentire se aveva ancora tutto. Ombrelli, bastoni, cappelli dondolavano sopra di loro e impedivano la vista, che era veramente straordinaria; lui provava a guardare mentre il suo cuore cantava quello che un poeta che io conosco bene ha cantato in Svizzera ma che fino a ora non è mai stato pubblicato:
Qui è bello proprio come il cuore desidera. Io vedo il Monte Bianco, così maestoso. Se solo avessi soldi a sufficienza, resterei qui!
Tutta la natura intorno era grandiosa, severa e scura. I boschi di abete sembravano erica nata sulle alte rocce, la cui cima si nascondeva tra le nuvole. Poi incominciò a nevicare e soffiò un vento gelido.
"Oh!" sospirò lui "se solo fossi già dall'altra parte delle Alpi, sarebbe estate e così avrei anche ritirato i soldi della lettera di credito; la paura che ho per questi non mi fa godere la Svizzera. Ah, se solo fossi dall'altra parte!" e così si trovò dall'altra parte, nel cuore dell'Italia, tra Firenze e Roma. Il Lago Trasimeno, illuminato dalla luce della sera, sembrava di oro fiammante; tra quelle scure montagne dove Annibale aveva vinto Flaminio, i tralci di vite s'intrecciavano pacificamente; dei bambini mezzi nudi e graziosissimi sorvegliavano un gruppo di maiali neri come il carbone sotto un boschetto di alloro profumato. Poteva essere un quadretto, e tutti nel vederlo avrebbero esclamato: "Bella Italia!" ma non lo disse né il teologo né alcuno dei compagni di viaggio che si trovavano nella carrozza.
A migliaia volavano intorno a loro mosche velenose e zanzare, che invano cacciavano con un ramo di mirto: gli insetti pungevano ugualmente. Nessuno di quanti era in carrozza potè evitare che il viso gli si gonfiasse e sanguinasse per le morsicature. I poveri cavalli sembravano delle carogne: gli insetti si erano posati su di loro in grandi sciami, e solo per un momento si sollevavano quando il vetturino scendeva per raschiare la schiena di quei poveri animali. Il sole tramontò e un breve ma gelido brivido di freddo passò per tutta la campagna. Non era affatto piacevole, ma tutt'intorno le montagne e le nuvole assunsero i colori più belli, trasparenti e luminosi... ma andate voi stessi a vederli, è molto meglio che leggerne la descrizione! Era meraviglioso! E lo trovarono così anche i viaggiatori, ma lo stomaco era vuoto, il corpo stanco, e tutti desideravano di cuore trovare un alloggio per la notte. Ma come sarebbe stato? In realtà pensavano molto di più a trovare un alloggio che non a ammirare la splendida natura.
La strada passava in mezzo a un bosco di olivi, era come viaggiare in patria tra salici nodosi e là si trovava una locanda solitaria. Proprio davanti stava una mezza dozzina di mendicanti; quello che aveva l'aspetto migliore sembrava il figlio primogenito della fame, quello che aveva raggiunto la maturità. Gli altri o erano ciechi o avevano le gambe rattrappite e strisciavano sulle mani, o avevano braccia ciondolanti e mani senza dita. Erano proprio la miseria in carne e ossa. " Eccellenza, Miserabili!" sospirarono tendendo gli arti malati. La padrona della locanda andò verso gli ospiti a piedi nudi, coi capelli arruffati e vestita di un camicione sporco. Le porte erano tenute chiuse con le corde, il pavimento nelle stanze era fatto di mattoni rotti, volavano pipistrelli proprio sotto il soffitto, e c'era una puzza!
"È meglio apparecchiare nella stalla!" disse uno dei viaggiatori "laggiù almeno si sa quello che si respira!"
Le finestre vennero aperte affinché entrasse un po' d'aria fresca, ma, molto più veloci, entrarono le braccia rattrappite e l'eterno lamento: "Miserabili! Eccellenza!".
Sulle pareti c'erano molte iscrizioni, metà di queste contro labe Ila Italia!
Il pranzo venne servito: una zuppa fatta di acqua e insaporita con pepe e olio rancido, lo stesso tipo di olio usato per l'insalata; uova marce e creste di gallo arrostite erano il piatto principale, persino il vino aveva un sapore tremendo, era un vero e proprio miscuglio.
Per la notte le valigie vennero ammucchiate davanti alla porta: uno dei viaggiatori doveva fare da guardia mentre gli altri dormivano; e fare da guardia toccò al teologo. Oh, che odore c'era li dentro! Il caldo soffocava, le zanzare ronzavano e pungevano, i miserabili che stavano là fuori si lamentavano nel sonno.
"Già, viaggiare è bello" sospirò lo studente "purché non si abbia il corpo! Se solo questo si potesse riposare e lo spirito invece potesse volare, volare! Ovunque io vada c'è una miseria che tocca il cuore, vorrei avere qualcosa di meglio di quello che può concedere l'istante, sì, qualcosa di meglio, il meglio, ma dov'è? che cos'è? In fondo io so bene che cosa desidero, voglio arrivare a una meta felice, la più felice di tutte!"
Mentre pronunciava queste parole si ritrovò a casa; le lunghe tendine bianche erano state abbassate davanti alla finestra e in mezzo alla stanza si trovava una bara nera in cui giaceva lui stesso immerso nel sonno tranquillo della morte, il suo desiderio era stato esaudito, il corpo riposava e lo spirito viaggiava.
"Non considerare nessuno felice, prima che sia nella sua tomba" ha detto Solone, e qui se ne ha la conferma.
Ogni cadavere è una sfìnge dell'immortalità: ma neppure quella sfìnge che si trovava nella bara nera corrispondeva a quel che lui da vivo aveva scritto due giorni prima:
Morte vigorosa, il tuo silenzio fa rabbrividire, la tua traccia è solo data dalle tombe del cimitero. Si infrangerà la speranza della Scala di Giacobbe? Mi sveglierò, come erba, nel giardino della morte? Spesso il mondo non vede la nostra maggiore sofferenza! A te che eri solo, fino all'ultimo istante, non peserà troppo sul cuore la terra che getteranno sulla tua bara!
Due figure si muovevano nella stanza, noi le conosciamo entrambe: erano la fata del dolore e la rappresentante della felicità, si piegarono sul morto.
"Vedi" disse il dolore "che felicità hanno portato agli uomini le tue soprascarpe?"
"Per lo meno hanno portato a quello che dorme qui la pace eterna!" rispose la gioia.
"Oh no!" disse il dolore "se n'è andato per volontà sua, non perché è stato chiamato! Le forze spirituali che aveva qui sulla terra non sono state sufficienti per ottenere lassù i tesori che gli erano stati destinati."
E gli tolse dai piedi le soprascarpe; allora il sonno della morte finì, e il resuscitato si alzò. Il dolore sparì e con il dolore le soprascarpe; senza dubbio le considerava una sua proprietà.
1. Cómo empezó la cosa
En una casa de Copenhague, en la calle del Este, no lejos del Nuevo Mercado Real, se celebraba una gran reunión, a la que asistían muchos invitados. No hay más remedio que hacerlo alguna vez que otra, pues lo exige la vida de sociedad, y así otro día lo invitan a uno. La mitad de los contertulios estaban ya sentados a las mesas de juego y la otra mitad aguardaba el resultado del "¿Qué vamos a hacer ahora?" de la señora de la casa. En ésas estaban, y la tertulia seguía adelante del mejor modo posible. Entre otros temas, la conversación recayó sobre la Edad Media. Algunos la consideraban mucho más interesante que nuestra época. Knapp, el consejero de Justicia, defendía con tanto celo este punto de vista, que la señora de la casa se puso enseguida de su lado, y ambos se lanzaron a atacar un ensayo de Orsted, publicado en el almanaque, en el que, después de comparar los tiempos antiguos y los modernos, terminaba concediendo la ventaja a nuestra época. El consejero afirmaba que el tiempo del rey danés Hans había sido el más bello y feliz de todos.
Mientras se discute este tema, interrumpido sólo un momento por la llegada de un periódico que no trae nada digno de ser leído, entrémonos nosotros en el vestíbulo, donde estaban guardados los abrigos, bastones, paraguas y chanclos. En él estaban sentadas dos mujeres, una de ellas joven, vieja la otra. Habría podido pensarse que su misión era acampanar a su señora, una vieja solterona o tal vez una viuda; pero observándolas más atentamente, uno se daba cuenta de que no eran criadas ordinarias; tenían las manos demasiado finas, su porte y actitud eran demasiado majestuosos - pues eran, en efecto, personas reales -, y el corte de sus vestidos revelaba una audacia muy personal. Eran, ni más ni menos, dos hadas; la más joven, aunque no era la Felicidad en persona, sí era, en cambio, una camarera de una de sus damas de honor, las encargadas de distribuir los favores menos valiosos de la suerte. La más vieja parecía un tanto sombría, era la Preocupación. Sus asuntos los cuida siempre personalmente; así está segura de que se han llevado a término de la manera debida.
Las dos hadas se estaban contando mutuamente sus andanzas de aquel día. La mensajera de la Suerte sólo había hecho unos encargos de poca monta: preservado un sombrero nuevo de un chaparrón, procurado a un señor honorable un saludo de una nulidad distinguida, etc.; pero le quedaba por hacer algo que se salía de lo corriente.
- Tengo que decirle aún -prosiguió- que hoy es mi cumpleaños, y para celebrarlo me han confiado un par de chanclos para que los entregue a los hombres. Estos chanclos tienen la propiedad de transportar en el acto, a quien los calce, al lugar y la época en que más le gustaría vivir. Todo deseo que guarde relación con el tiempo, el lugar o la duración, es cumplido al acto, y así el hombre encuentra finalmente la felicidad en este mundo.
- Eso crees tú -replicó la Preocupación-. El hombre que haga uso de esa facultad será muy desgraciado, y bendecirá el instante en que pueda quitarse los chanclos.
- ¿Por qué dices eso? -respondió la otra-. Mira, voy a dejarlos en el umbral; alguien se los pondrá equivocadamente y verás lo feliz que será.
Ésta fue la conversación.
2. - Qué tal le fue al consejero
Se había hecho ya tarde. El consejero de Justicia, absorto en su panegírico de la época del rey Hans, se acordó al fin de que era hora de despedirse, y quiso el azar que, en vez de sus chanclos, se calzase los de la suerte y saliese con ellos a la calle del Este; pero la fuerza mágica del calzado lo trasladó al tiempo del rey Hans, y por eso se metió de pies en la porquería y el barro, pues en aquellos tiempos las calles no estaban empedradas.
- ¡Es espantoso cómo está de sucia esta calle! -exclamó el Consejero-. Han quitado la acera, y todos los faroles están apagados.
La luna estaba aún baja sobre el horizonte, y el aire era además bastante denso, por lo que todos los objetos se confundían en la oscuridad. En la primera esquina brillaba una lamparilla debajo de una imagen de la Virgen, pero la luz que arrojaba era casi nula; el hombre no la vio hasta que estuvo junto a ella, y sus ojos se fijaron en la estampa pintada en que se representaba a la Virgen con el Niño.
"Debe anunciar una colección de arte, y se habrán olvidado de quitar el cartel", pensó.
Pasaron por su lado varias personas vestidas con el traje de aquella época.
"¡Vaya fachas! Saldrán de algún baile de máscaras".
De pronto resonaron tambores y pífanos y brillaron antorchas. El Consejero se detuvo, sorprendido, y vio pasar una extraña comitiva. A la cabeza marchaba una sección de tambores aporreando reciamente sus instrumentos; seguíanles alabarderos con arcos y ballestas. El más distinguido de toda la tropa era un sacerdote. El Consejero, asombrado, preguntó qué significaba todo aquello y quién era aquel hombre.
- Es el obispo de Zelanda -le respondieron.
"¡Dios santo! ¿Qué se le ha ocurrido al obispo?", suspiró nuestro hombre, meneando la cabeza. Pero era imposible que fuese aquél el obispo. Cavilando y sin ver por dónde iba, siguió el Consejero por la calle del Este y la plaza del Puente Alto. No hubo medio de dar con el puente que lleva a la plaza de Palacio. Sólo veía una ribera baja, y al fin divisó dos individuos sentados en una barca.
- ¿Desea el señor que le pasemos a la isla? -preguntaron.
- ¿Pasar a la isla? -respondió el Consejero, ignorante aún de la época en que se encontraba-. Adonde voy es a Christianshafen, a la calle del Mercado.
Los individuos lo miraron sin decir nada.
- Decidme sólo dónde está el puente -prosiguió-. Es vergonzoso que no estén encendidos los faroles; y, además, hay tanto barro que no parece sino que camine uno por un cenagal.
A medida que hablaba con los barqueros, se le hacían más y más incomprensibles.
- No entiendo vuestra jerga -dijo, finalmente, volviéndoles la espalda. No lograba dar con el puente, y ni siquiera había barandilla. "¡Esto es una vergüenza de dejadez!", dijo. Nunca le había parecido su época más miserable que aquella noche. "Creo que lo mejor será tomar un coche", pensó; pero, ¿coches me has dicho? No se veía ninguno. "Tendré que volver al Nuevo Mercado Real; de seguro que allí los hay; de otro modo, nunca llegaré a Christianshafen".
Volvió a la calle del Este, y casi la había recorrido toda cuando salió la luna.
"¡Dios mío, qué esperpento han levantado aquí!", exclamó al distinguir la puerta del Este, que en aquellos tiempos se hallaba en el extremo de la calle.
Entretanto encontró un portalito, por el que salió al actual Mercado Nuevo; pero no era sino una extensa explanada cubierta de hierba, con algunos matorrales, atravesada por una ancha corriente de agua. Varias míseras barracas de madera, habitadas por marineros de Halland, de quienes venía el nombre de Punta de Halland, se levantaban en la orilla opuesta.
"O lo que estoy viendo es un espejismo o estoy borracho -suspiró el Consejero-. ¿Qué diablos es eso?".
Volvióse persuadido de que estaba enfermo; al entrar de nuevo en la calle observó las casas con más detención; la mayoría eran de entramado de madera, y muchas tenían tejado de paja.
"¡No, yo no estoy bien! -exclamó-, y, sin embargo, sólo he tomado un vaso de ponche; cierto que es una bebida que siempre se me sube a la cabeza. Además, fue una gran equivocación servirnos ponche con salmón caliente; se lo diré a la señora del Agente. ¿Y si volviese a decirle lo que me ocurre? Pero sería ridículo, y, por otra parte, tal vez estén ya acostados".
Buscó la casa, pero no aparecía por ningún lado.
"¡Pero esto es espantoso, no reconozco la calle del Este, no hay ninguna tienda! Sólo veo casas viejas, míseras y semiderruidas, como si estuviese en Roeskilde o Ringsted. ¡Yo estoy enfermo! Pero de nada sirve hacerse imaginaciones. ¿Dónde diablos está la casa del Agente? Ésta no se le parece en nada, y, sin embargo, hay gente aún. ¡Ah, no hay duda, estoy enfermo!".
Empujó una puerta entornada, a la que llegaba la luz por una rendija. Era una posada de los viejos tiempos, una especie de cervecería. La sala presentaba el aspecto de una taberna del Holstein; cierto número de personas, marinos, burgueses de Copenhague y dos o tres clérigos, estaban enfrascados en animadas charlas sobre sus jarras de cerveza, y apenas se dieron cuenta del forastero.
- Usted perdone -dijo el Consejero a la posadera, que se adelantó a su encuentro-. Me siento muy indispuesto. ¿No podría usted proporcionarme un coche que me llevase a Christianshafen? La mujer lo miró, sacudiendo la cabeza; luego dirigióle la palabra en lengua alemana. Nuestro consejero, pensando que no conocía la danesa, le repitió su ruego en alemán. Aquello, añadido a la indumentaria del forastero, afirmó en la tabernera la creencia de que trataba con un extranjero; comprendió, sin embargo, que no se encontraba bien, y le trajo un jarro de agua; y por cierto que sabía un tanto a agua de mar, a pesar que era del pozo de la calle.
El Consejero, apoyando la cabeza en la mano, respiró profundamente y se puso a cavilar sobre todas las cosas raras que le rodeaban.
- ¿Es éste "El Día" de esta tarde? -preguntó, sólo por decir, algo, viendo que la mujer apartaba una gran hoja de papel.
Ella, sin comprender la pregunta, alargóle la hoja, que era un grabado en madera que representaba un fenómeno atmosférico visto en Colonia.
- Es un grabado muy antiguo -exclamó el Consejero, contento de ver un ejemplar tan raro-. ¿Cómo ha venido a sus manos este rarísimo documento? Es de un interés enorme, aunque sólo se trata de una fábula. Se afirma que estos fenómenos lumínicos son auroras boreales, y probablemente son efectos de la electricidad atmosférica.
Los que se hallaban sentados cerca de él, al oír sus palabras lo miraron con asombro; uno se levantó, y, quitándose respetuosamente el sombrero, le dijo muy serio:
- Seguramente sois un hombre de gran erudición, Monsieur.
- ¡Oh, no! -respondió el Consejero-. Sólo sé hablar de unas cuantas cosas que todo el mundo conoce.
- La modestia es una hermosa virtud -observó el otro- Por lo demás, debo contestar a vuestro discurso: mihi secus videtur; pero dejo en suspenso mi juicio.
- ¿Tendríais la bondad de decirme con quién tengo el honor de hablar? -preguntó el Consejero.
- Soy bachiller en Sagradas Escrituras -respondió el hombre.
Aquella respuesta bastó al magistrado; el título se correspondía con el traje. "Seguramente -pensó- se trata de algún viejo maestro de pueblo, un original de ésos que uno encuentra con frecuencia en Jutlandia".
- Aunque esto no es en realidad un locus docendi -prosiguió el hombre-, os ruego que os dignéis hablar. Indudablemente habéis leído mucho sobre la Antigüedad.
- Desde luego -contestó el Consejero-. Me gusta leer escritos antiguos y útiles, pero también soy aficionado a las cosas modernas, con excepción de esas historias triviales, tan abundantes en verdad.
- ¿Historias triviales? -preguntó el bachiller.
- Sí, me refiero a estas novelas de hoy, tan corrientes.
- ¡Oh! -dijo, sonriendo, el hombre-, sin embargo, tienen mucho ingenio y se leen en la Corte. El Rey gusta de modo particular de la novela del Señor de Iffven y el Señor Gaudian, con el rey Artús y los Caballeros de la Tabla Redonda; se ha reído no poco con sus altos dignatarios.
- Pues yo no la he leído -dijo el Consejero-. Debe de ser alguna edición recientísima de Heiberg.
- No -rectificó el otro-. No es de Heiberg, sino de Godofredo de Gehmen.
- Ya. ¿Así, éste es el autor? -preguntó el magistrado-. Es un nombre antiquísimo; así se llama el primer impresor que hubo en Dinamarca, ¿verdad?
- Sí, es nuestro primer impresor -asintió el hombre.
Hasta aquí todo marchaba sin tropiezos; luego, uno de los buenos burgueses se puso a hablar de la grave peste que se había declarado algunos años antes, refiriéndose a la de 1494; pero el Consejero creyó que se trataba de la epidemia de cólera, con lo cual la conversación prosiguió como sobre ruedas. La guerra de los piratas de 1490, tan reciente, salió a su vez a colación. Los corsarios ingleses habían capturado barcos en la rada, dijeron; y el Consejero, que había vivido los acontecimientos de 1801, se sumó a los vituperios contra los ingleses. El resto de la charla, en cambio, ya no discurrió tan llanamente, y en más de un momento pusieron los unos y el otro caras agrias; el buen bachiller resultaba demasiado ignorante, y las manifestaciones más simples del magistrado le sonaban a atrevidas y exageradas. Se consideraban mutuamente de reojo, y cuando las cosas se ponían demasiado tirantes, el bachiller hablaba en latín con la esperanza de ser mejor comprendido; pero nada se sacaba en limpio.
- ¿Qué tal se siente? -preguntó la posadera tirando de la manga al Consejero. Entonces éste volvió a la realidad; en el calor de la discusión había olvidado por completo lo que antes le ocurriera.
- ¡Dios mío! pero, ¿dónde estoy? -preguntó, sintiendo que le daba vueltas la cabeza.
- ¡Vamos a tomar un vaso de lo caro! Hidromiel y cerveza de Brema -pidió uno de los presentes-, y vos beberéis con nosotros.
Entraron dos mozas, una de ellas cubierta con una cofia bicolor; sirvieron la bebida y saludaron con una inclinación. Al Consejero le pareció que un extraño frío le recorría el espinazo.
- ¿Pero qué es esto, qué es esto? -repetía; pero no tuvo más remedio que beber con ellos, los cuales se apoderaron del buen señor. Estaba completamente desconcertado, y al decir uno que estaba borracho, no lo puso en duda, y se limitó a pedirles que le procurasen un coche. Entonces pensaron los otros que hablaba en moscovita.
Nunca se había encontrado en una compañía tan ruda y tan ordinaria. "¡Es para pensar que el país ha vuelto al paganismo -dijo para sí-. Estoy pasando el momento más horrible de mi vida". De repente le vino la idea de meterse debajo de la mesa y alcanzar la puerta andando a gatas. Así lo hizo, pero cuando ya estaba en la salida, los otros se dieron cuenta de su propósito, lo agarraron por los pies y se quedaron con los chanclos en la mano... afortunadamente para él, pues al quitarle los chanclos cesó el hechizo.
El Consejero vio entonces ante él un farol encendido, y detrás, un gran edificio; todo le resultaba ya conocido y familiar; era la calle del Este, tal como nosotros la conocemos. Se encontró tendido en el suelo con las piernas contra una puerta, frente al dormido vigilante nocturno.
"¡Dios bendito! ¿Es posible que haya estado tendido en plena calle y soñando? -dijo-. ¡Sí, ésta es la calle del Este! ¡Qué bonita, qué clara y pintoresca! ¡Es terrible el efecto de un vaso de ponche!".
Dos minutos más tarde se hallaba en un coche de punto, que lo conducía a Christianshafen; pensaba en las angustias sufridas y daba gracias de todo corazón a la dichosa realidad de nuestra época, que, con todos sus defectos, es infinitamente mejor que la que acababa de dejar; y, bien mirado, el consejero de Justicia era muy discreto al pensar de este modo.
3. - La aventura del vigilante nocturno
"¡Si son unos chanclos de verdad! -exclamó el vigilante-. Serán del teniente que vive allí. Están delante de la puerta".
El buen hombre tuvo la intención de llamar y entregarlos, pues en el piso habla luz; pero, temiendo despertar a los demás vecinos, no lo hizo.
"¡Qué calentito debe sentirse uno con estas cosas en los pies! -pensó-. El cuero es muy suave" -. Le venían bien-. "¡Qué extraño es el mundo! El teniente podría meterse ahora en su cama bien caliente, pero no señor, ni se le ocurre. Venga pasearse por la habitación; éste sí que es un hombre feliz. No tiene mujer ni hijos, y cada noche va de tertulia. ¡Qué dicha estar en su lugar!".
Al expresar este deseo, obró el hechizo de los chanclos que se había calzado: el vigilante nocturno pasó a convertirse en el teniente. Encontróse en la habitación alta, con un papel color de rosa en las manos, en el que estaba escrita una poesía, obra del propio teniente. Pues todos hemos tenido en la vida un momento de inspiración poética, y si entonces hemos anotado nuestros pensamientos, el resultado ha sido una poesía. La del papel rezaba así:
¡Quién fuera rico!, suspiré a menudo,
cuando un palmo del suelo levantaba.
Fuera yo rico, serviría al rey
con sable y uniforme y bandolera.
Llegó sí el tiempo en que fui oficial
mas la riqueza rehuye mi encuentro.
¡Ayúdame, Dios del Cielo!
Era, una noche, joven y dichoso,
me besaba en los labios una niña.
Yo era rico en hechizos y poesía,
pero pobre en dineros, ¡ay de mí!
Ella sólo pedía fantasías,
y en esto yo era rico, que no de oro.
Tú lo sabes, Dios del Cielo.
¡Quién fuera rico!, suspira mi alma.
Ya la niña se ha hecho una doncella,
hermosa, inteligente y bondadosa.
¡Si oyera mi canción, que hoy yo te canto
y quisiera quererme como antaño!
Pero he de enmudecer, pues soy tan pobre.
¡Así lo quieres, Dios del Cielo!
¡Oh, sí fuera yo rico en paz y amor,
no irían al papel estas mis penas.
Sólo tú, amada, puedes comprenderme.
Lee estas líneas, oye mi lamento...
oscuro cuento, hijo de la noche,
pues que sólo tinieblas se me ofrecen...
¡Bendígate el Dios del Cielo!
Poesías así sólo se escriben cuando se está enamorado; pero un hombre discreto se abstiene de darlas a la luz. Teniente, amor, escasez de dineros, es un triángulo o, lo que viene a ser lo mismo, la mitad del dado roto de la felicidad. El teniente lo experimentaba en su entraña, y por eso suspiraba con la cabeza apoyada contra el marco de la ventana.
"Ese pobre vigilante de la calle es mucho más feliz que yo; no conoce lo que yo llamo la miseria; tiene un hogar, mujer e hijos, que lloran con sus penas y gozan con sus alegrías. ¡Ah, cuánto más feliz sería yo si pudiese cambiarme con él, y avanzar por la vida enfrentándome con sus exigencias y sus esperanzas! ¡Sin duda es más feliz que yo!".
En el mismo instante el vigilante volvió a ser vigilante, pues con los chanclos de la suerte se había transformado en el teniente, pero, según hemos visto, se sintió desdichado y deseó ser lo que poco antes era. Y de este modo el vigilante pasó de nuevo a ser vigilante.
"Ha sido un sueño muy desagradable -dijo-, pero muy raro. Me pareció que era el teniente de arriba, y, sin embargo, no me dio ningún gusto. Echaba en falta a mi mujercita y los chiquillos, que me aturden con sus besos".
Volvióse a sentar y a dar cabezadas; el sueño no lo abandonaba, pues aún llevaba los chanclos puestos. Una estrella errante surcó el cielo.
"¡Allá va! -dijo-, pero, ¡qué importa, con las que hay! Me habría gustado ver esas cosas más de cerca, especialmente la Luna, que no se escapa tan deprisa como las estrellas errantes. Según aquel estudiante, cuya ropa lava mi mujer, cuando morimos vamos volando de estrella en estrella. Es un cuento, desde luego, pero lo bonito que sería, si fuera verdad. Ojalá pudiera yo pegar un saltito hasta allí; el cuerpo podría quedarse aquí, echado en la escalera".
¿Sabes?, hay ciertas cosas en el mundo que no deben mentarse sin mucho cuidado; pero hay que redoblar aún la prudencia cuando se llevan puestos los chanclos de la suerte. Escucha, si no, lo que le sucedió al vigilante.
Todos conocemos la velocidad de la tracción a vapor; la hemos experimentado, ya viajando en ferrocarril, ya por mar, en barcos; pero este vuelo es como la marcha de un caracol comparada con la velocidad de la luz; corre diecinueve millones de veces más rápida que el mejor corredor, y, sin embargo, la electricidad todavía la supera. La muerte es un choque eléctrico que recibimos en el corazón; en alas de la electricidad, el alma, liberada emprende el vuelo. Ocho minutos y unos segundos necesita la luz del sol para efectuar un viaje de más de veinte millones de millas; con el tren expreso de la electricidad, el alma necesita solamente unos pocos minutos para efectuar el mismo recorrido. El espacio que separa los astros no es para ella mayor que para nosotros las distancias que, en una misma ciudad, median entre las casas de nuestros amigos, incluso cuando son vecinas. Pero este choque eléctrico cardíaco nos cuesta el uso del cuerpo aquí abajo, a no ser que, como el vigilante, llevemos puestos los chanclos de la suerte.
En breves segundos recorrió nuestro hombre las cincuenta y dos mil millas que nos separan de la Luna, la cual, como se sabe, es de una materia más ligera que nuestra Tierra; podríamos decir que tiene la blanda consistencia de la nieve recién caída. Encontróse en una de aquellas innúmeras montañas anulares que conocemos por el gran mapa de la Luna que trazara el doctor Mädler; lo has visto, ¿verdad? Por el interior era un embudo que descendía cosa de media milla, y en el fondo se levantaba una ciudad, cuyo aspecto podemos figurarnos si batimos claras de huevo en un vaso de agua; los materiales eran blandos como ellas, y formaban torres parecidas, con cúpulas y terrazas en forma de velas, transparentes y flotantes en la tenue atmósfera. Nuestra tierra flotaba encima de su cabeza como un globo de color rojo oscuro.
Inmediatamente vio un gran número de seres, que serían sin duda los que nosotros llamamos "personas"; pero su figura era muy distinta de la nuestra. Tenían también su lengua, y nadie puede exigir que un vigilante nocturno la entendiera; pues bien, a pesar de ello, resultó que la entendía.
Sí, señor, resultó que el alma del vigilante entendía perfectamente la lengua de los selenitas, los cuales hablaban de nuestra Tierra y dudaban de que pudiese estar habitada. En ella la atmósfera debía de ser demasiado densa para permitir la vida de un ser lunático racional. Consideraban que sólo la Luna estaba habitada; era, según ellos, el astro idóneo para servir de vivienda a los moradores del universo.
Pero volvamos a la calle del Este y veamos qué pasa con el cuerpo del vigilante nocturno.
Yacía inanimado en la escalera; el chuzo le había caído de la mano, y los ojos tenían la mirada clavada en la Luna, donde vagaba su alma de bendito.
- ¿Qué hora es, vigilante? -preguntó un transeúnte. Pero el vigilante no respondió. Entonces el hombre le dio un capirotazo en las narices, con lo que el cuerpo perdió el equilibrio, quedando tan largo como era; ¡el vigilante estaba muerto! Al transeúnte le sobrevino una gran angustia ante aquel hombre al que acababa de propinar un capirotazo. El vigilante estaba muerto, y muerto quedó; se dio parte, se comentó el acontecimiento, y a la madrugada trasladaron el cuerpo al hospital.
Ahora bien, ¿cómo se las iba a arreglar el alma, si se le ocurría volver, y, como es muy natural, buscaba el cuerpo en la calle del Este? Allí, desde luego, no lo encontraría. Lo más probable es que acudiese a la policía, y de ella a la oficina de informaciones, donde preguntarían e investigarían entre los objetos extraviados; y luego iría al hospital. Pero tranquilicémonos; el alma es muy inteligente cuando obra por sí misma; es el cuerpo el que la vuelve tonta.
Según ya dijimos, el cuerpo del vigilante fue a parar al hospital y depositado en la sala de desinfección, donde, como era lógico, la primera cosa que hicieron fue quitarle los chanclos, con lo cual el alma hubo de volver. Dirigióse enseguida al lugar donde estaba el cuerpo, y un momento después nuestro hombre estaba de nuevo vivito y coleando. Aseguró que acababa de pasar la noche más horrible de su vida; ni por un escudo se avendría a volver a las andadas; suerte que ya había pasado.
Lo dieron de alta el mismo día, pero los chanclos quedaron en el hospital.
4. - La historia en su punto culminante
Un número de declamación
Un viaje muy fuera de lo corriente
Todos los ciudadanos de Copenhague saben hoy día cómo es la entrada del hospital del rey Federico. Pero como puede darse el caso de que lean la presente historia algunas personas desconocedoras de la capital, forzoso nos será comenzar dando una descripción de ella.
El hospital queda separado de la calle por una reja bastante alta, cuyos barrotes de hierro están tan distantes entre sí, que algunos de los estudiantes internos de Medicina, si eran flacos, podían escabullirse por entre ellos y efectuar sus pequeñas correrías por el exterior. La parte del cuerpo que más costaba de pasar era la cabeza; en este caso, como en tantos otros que vemos en la vida, las cabezas menores eran las más afortunadas. Lo dicho bastará como introducción.
Uno de los jóvenes candidatos, de quien sólo desde el punto de vista corporal podía decirse que tenía una gran cabeza, estaba de guardia aquella noche. La lluvia caía a cántaros, lo cual suponía un obstáculo más; pero, a pesar de todo, el mozo tenía que salir, aunque fuere sólo por un cuarto de hora. Para una ausencia tan breve no había necesidad de dar explicaciones al portero, pensó, con tal de poder escurrirse por entre las rejas. Allí estaban los chanclos que el vigilante había olvidado; ni por un momento se le ocurrió que pudiesen ser los de la Suerte, y si sólo que con aquel tiempo le harían buen servicio; por eso se los puso. Le vino entonces la duda de si podría o no pasar por entre los barrotes, pues nunca lo había intentado aún.
Y allí estaba.
"¡Quiera Dios que pueda pasar la cabeza!" -dijo, e inmediatamente, a pesar de que era grande y dura, pasó con facilidad y sin contratiempos, gracias a los chanclos; pero no el cuerpo, y allí se quedó.
"¡Uf, estoy demasiado gordo! -dijo-. Creía que la cabeza era lo más difícil. No podré salir".
Trató entonces de retirarla, pero no hubo medio. Podía mover el cuello fácilmente, pero eso era todo. Su primer impulso fue de ira, y el segundo, de total desaliento. Los chanclos de la Suerte lo habían puesto en aquella terrible situación, y, desgraciadamente para él, no se le ocurrió desear liberarse de ella, sino que continuó forcejeando sin conseguir nada positivo. Seguía lloviendo intensamente, y por la calle no pasaba un alma. Le era imposible alcanzar la cadena de la campanilla de la puerta; ¿cómo soltarse? Comprendió que tendría que permanecer allí hasta la mañana; entonces habrían de llamar a un herrero para que limase un barrote; pero esto lleva tiempo. Toda la escuela de pobres, situada enfrente, acudiría con sus alumnos uniformados de azul, todo el barrio marinero de Nyboder se concentraría allí para verlo en la picota; habría una afluencia enorme, mucho mayor que la del pasado año en que había florecido el agave gigante. "¡Uf, la sangre se me sube a la cabeza, creo que me volveré loco! ¡Sí, me volveré loco! ¡Ah, si pudiese soltarme, todo estaría resuelto!".
¡Hubiera podido decirlo antes! No bien hubo manifestado aquel deseo, quedóle libre la cabeza y se precipitó al interior, desconcertado por el susto que acababan de causarle los chanclos de la Suerte.
Pero no creáis que paró aquí la cosa, no; lo peor es lo que sucedió más tarde.
Transcurrieron la noche y el día siguiente, sin que nadie reclamara los chanclos.
Al atardecer se celebraba una representación en el pequeño teatro del callejón de Kannike, la sala estaba llena de bote en bote. En un intermedio leyeron una poesía nueva que tenía por título "Las gafas de la abuela". Hablábase en ella de unas gafas que tenían la virtud de hacer aparecer a las personas en figura de naipes, con los cuales podía adivinarse el futuro y predecir lo que iba a ocurrir al año siguiente.
El recitador cosechó grandes aplausos. Entre los espectadores se encontraba también nuestro estudiante del hospital, que no parecía ya acordarse de su aventura de la pasada noche. Llevaba puestos los chanclos, pues nadie los había reclamado, y como la calle estaba sucia de barro, pensó que le prestaron buen servicio. Estimó que la poesía era muy buena.
Aquella idea le preocupaba; le habría gustado no poco poseer unos anteojos como los descritos; utilizándolos bien, tal vez fuera posible ver el mismo corazón de las personas, lo cual resultaría aún más interesante que saber los acontecimientos del próximo año. Éstos se sabrían al cabo, mientras que aquello quedaría siempre oculto. "Sólo imagino toda la hilera de caballeros y señoras de primera fila: ¡si pudiese uno ver en sus corazones! Tendría que haber una abertura, una especie de escaparate. ¡Cómo recorrerían mis ojos las tiendas! Aquella dama posee seguramente un gran negocio de confección; la otra tiene la tienda vacía, pero no le vendría mal una limpieza general. Pero encontraría también buenos establecimientos. ¡Ay, sí! -suspiró-, sé de uno en que todo es excelente, lástima del empleado que hay en él; es lo único malo de la tienda. De todas partes me llamarían: ¡Venga, acérquese más, por favor! ¡Oh, si pudiese filtrarme en ellos como un minúsculo pensamiento!".
No necesitaron más los chanclos; el joven se contrajo e inició un viaje absolutamente insólito por los corazones de los espectadores de la primera fila. El primer corazón por el que pasó pertenecía a una dama; sin embargo, en el primer momento creyó encontrarse en un instituto ortopédico, como suelen llamarse esos establecimientos en los que el médico arregla deformidades humanas y endereza a las personas. Estaba en el cuarto de cuyas paredes cuelgan los moldes en yeso de los miembros deformes; con la única diferencia de que en el instituto se moldean al entrar el paciente, mientras en el corazón no se moldeaban y guardaban hasta que los interesados habían vuelto a salir. Eran vaciados de amigas, cuyos defectos, corporales y espirituales, se guardaban allí.
Rápidamente pasó a otro corazón, que le hizo el efecto de un venerable y espacioso templo. La blanca paloma de la inocencia aleteaba sobre el altar; ¡qué deseos sintió de hincarse de rodillas! Pero inmediatamente hubo de trasladarse al tercer corazón, aunque seguía oyendo las notas del órgano y tenía la impresión de haberse vuelto un hombre nuevo y mejor; no se sentía indigno de penetrar en el siguiente santuario, que le mostró una pobre buhardilla con una madre enferma. Por la abierta ventana, el sol bendito de Dios; magníficas rosas le hacían señas desde la pequeña maceta del tejado, y dos pájaros de color azul celeste cantaban alegrías infantiles, mientras la doliente madre pedía bendiciones para su hija.
Andando a gatas entróse luego en una carnicería abarrotada. No hacía sino toparse con carne y más carne. Era el corazón de un hombre rico y prestigioso, cuyo nombre anda en todas las bocas.
A continuación penetró en el corazón de su mujer, palomar viejo y derruido. El retrato del hombre servía de veleta; estaba en combinación con las puertas, las cuales se abrían y cerraban según giraba el hombre.
Vino después un salón de espejos, tal como el que tenemos en el palacio de Rosenborg; sólo que los cristales aumentaban en proporciones desmesuradas. En el centro del recinto, sentado en el suelo como un Dalai-Lama, estaba el insignificante YO de la persona, contemplando maravillado su propia talla.
Luego creyó entrar en un estrecho alfiletero lleno de punzantes alfileres, y no tuvo más remedio que pensar: "Seguramente es el corazón de una solterona". Pero era el de un joven guerrero, poseedor de numerosas condecoraciones y de quien se decía: es hombre de alma y corazón.
Completamente desconcertado salió el pobre pecador del último corazón de la serie; no era capaz de ordenar sus pensamientos, y pensó que su excesiva imaginación le había jugado una mala pasada. "¡Dios mío! -suspiró-, debo tener propensión a la locura. Además, aquí hace un calor asfixiante, la sangre se me sube a la cabeza". Entonces se acordó de su peripecia de la noche anterior, cuando la cabeza se le había quedado aprisionada entre los barrotes de la reja. "¡Allí lo cogí de seguro! -pensó-. Tengo que ponerle remedio cuanto antes. Un baño ruso me aliviaría. ¡Si pudiese estar ahora en la tabla más alta del baño de vapor!".
Y ahí lo tenéis en la tabla más alta del baño de vapor, pero con todos los vestidos, botas y chanclos. Las ardientes gotas de agua que caían del techo le daban en la cara.
"¡Uy!", gritó, saltando precipitadamente para meterse bajo la ducha fría. El guardián soltó un estridente grito al ver a aquel individuo vestido.
El estudiante tuvo la suficiente presencia de ánimo para decirle en voz baja:
- ¡Es una apuesta!
Pero lo primero que hizo en cuanto estuvo en su habitación fue aplicarse al pescuezo un gran vejigatorio español y tumbarse de espaldas, para que le saliese del cuerpo la locura.
A la mañana siguiente tenía toda la espalda ensangrentada; era cuanto había sacado de los chanclos de la Suerte.
5. - La metamorfosis del escribiente
Entretanto, el vigilante nocturno, a quien a buen seguro no habéis olvidado, pensaba en los chanclos que había encontrado y dejado luego en el hospital. Fue a reclamarlos, pero como ni el teniente ni nadie más de su calle los reconocieron por suyos, los entregó a la policía.
- Se parecen exactamente a los míos -dijo uno de los escribientes, examinando el par encontrado y poniéndolo al lado del suyo-. Creo que ni un zapatero los distinguiría.
- ¡Señor escribiente! -dijo un subalterno, entrando con unos papeles.
El escribiente se volvió y se puso a hablar con el otro; después miró nuevamente los chanclos, pero le resultaba ya imposible afirmar si los suyos eran los de la derecha o los de la izquierda.
"¿Deben de ser los mojados?" -pensó; pero se equivocó, pues eran los de la Suerte. ¿O creéis tal vez que un policía no puede equivocarse? Se los calzó, metióse los papeles en el bolsillo y se llevó algunos escritos bajo el brazo, para leerlos y copiarlos en su casa. Pero como era domingo por la mañana y hacía buen tiempo, pensó: "Una excursión a Frederiksberg me sentaría bien". ¡Pensado y hecho!
No podéis imaginar un hombre más plácido y diligente que aquel joven; justo es, pues, que le concedamos pasear a su gusto. Después de tantas horas de permanecer sentado, indudablemente la salida le hará bien.
Comenzó la excursioncita sin pensar en nada; por eso los chanclos no tuvieron ocasión de poner en efecto su virtud mágica. En el camino se encontró con un conocido, uno de nuestros jóvenes poetas, el cual le comunicó que al día siguiente emprendería su viaje veraniego.
- De modo que se marcha -dijo el escribiente-. Es usted un hombre feliz y libre. Puede volar adonde quiera, mientras nosotros estamos aquí encadenados.
- Pero su cadena está sujeta al árbol del pan -replicó el poeta- No tienen que preocuparse por el día de mañana, y si llegan a viejos, cobran una pensión.
- Sin embargo, ustedes llevan la mejor parte, -repuso el escribiente-. Es un placer estarse tranquilo componiendo poemas; todo el mundo les dirige palabras amables, y son dueños de su vida y de sus actos. Me gustaría que probase a lo que sabe, el ocuparse en esos estúpidos procesos.
El poeta meneó la cabeza, el escribiente hizo lo mismo, y se separaron sin haberse convencido mutuamente.
"Son gente original esos poetas -dijo el escribiente-. Me gustaría transformarme en una naturaleza como la suya y volverme poeta. Estoy seguro de que no escribiría estas elegías que ellos escriben. ¡Qué precioso día de primavera para un poeta! El aire es límpido y translúcido, las nubes se deslizan blandamente, y los prados nos envían sus aromas, ¡Cuántos años hacía que no gozaba de un momento como éste?".
Como podéis observar, se había transformado en poeta; no es que fuese nada extraordinario, pues es un disparate figurarse a los poetas como seres diferentes de los demás humanos; cabe muy bien que entre éstos haya naturalezas mucho más poéticas que algunas grandes personalidades reputadas de tales. La diferencia consiste sólo en que el poeta posee una memoria espiritual mejor y más potente, es capaz de retener las ideas y los sentimientos hasta darles forma clara y precisa por medio de la palabra; en cambio, los demás no son capaces de hacerlo. Pero el paso de una naturaleza ordinaria a otra mejor dotada supone siempre una transición, y ésta es la transición que experimentó nuestro escribiente.
"¡Qué maravillosa fragancia! -exclamó-. Me recuerda las violetas de tía Elena. Era yo un chiquillo entonces. ¡Cuánto tiempo hace que no había pensado en aquellos días! La pobre y bondadosa mujer vivía detrás de la Bolsa. Siempre tenía una rama o unos brotes en agua, por rudo que fuese el invierno. Las violetas olían, mientras yo aplicaba una perra chica calentada al cristal helado de la ventana para hacerme una mirilla. Era una vista preciosa. Fuera, en el canal, se alineaban los barcos inmovilizados por el hielo, sin tripulantes a bordo; toda la dotación se reducía a una chillona corneja. Pero, cuando empezaban a soplar los vientos primaverales, todo se animaba; entre cantos y hurras, aserraban el hielo, calafateaban los barcos y los aparejaban, y muy pronto se hacían a la mar hacia tierras extrañas. Yo me quedé y estoy condenado a seguir aquí, encerrado en la Comisaría, mirando cómo los demás sacan los pasaportes para trasladarse al extranjero. Es mi destino. ¿Qué hacerle?". Y suspiró profundamente. De pronto quedó suspenso: "¡Dios santo! ¿Qué me pasa? Jamás pensé ni sentí estas impresiones; debe ser el aire de primavera, angustioso y agradable al mismo tiempo". Y se sacó los papeles de¡ bolsillo. "Esto me hará pensar en otras cosas", dijo, dejando correr la mirada por el papel. "La Señora de Sigbrith; tragedia original en cinco actos", leyó. "¿Qué significa esto? Y, sin embargo, es de mi puño y letra. Es posible que haya escrito yo esta obra?". "La intriga del muro o El día de la penitencia; farsa musical", "Pero, ¿de dónde salen estas cosas? ¡Me lo habrán metido en el bolsillo! Aquí hay una carta". Era de la dirección del teatro, en que le rechazaban las obras en un lenguaje muy poco cortés. "¡Hum!", dijo el escribiente sentándose en un banco. Sus ideas estaban llenas de vida, y su corazón, de sentimiento; maquinalmente cogió una de las flores más cercanas; era una margarita vulgar; en un momento reveló todo aquello que, para explicarlo, los naturalistas emplean varias sesiones; le habló del mito de su nacimiento, de la fuerza de la luz solar, que extiende sus delicadas hojas y la obliga a esparcir su aroma. Entonces pensó él en las luchas de la vida, que tantos sentimientos despiertan también en nuestro pecho. El aire y la luz eran los amantes de la flor, pero la luz era el preferido, a ella se dirigía la flor, y si la luz se extinguía, ella plegaba sus pétalos y se dormía mecida por el aire. "A la luz es a quien debo mi hermosura", decía la flor. "Pero respiras gracias al aire", le susurró la voz del poeta.
A poca distancia, un muchachito golpeaba con un palo en un foso lleno de barro; las gotas de agua saltaban por entre las ramas verdes, y el escribiente pensó en los millones de animalitos que, encerrados en aquellas gotas, eran proyectados al aire, lo cual, considerando su volumen, significaba lo que para nosotros ser disparados a la región de las nubes. Pensando en el cambio que se había originado en su persona, el escribiente sonrió y dijo: "Debo dormir y soñar. Pero es muy extraño eso de estar soñando de modo tan natural y saber que se trata sólo de un sueño. ¡Si al menos lo recordase mañana, cuando despierte! Ahora me parece estar extraordinariamente bien dispuesto. ¡Lo veo todo tan claramente y me siento tan excitado!, y, sin embargo, estoy seguro de que si al despertarme recuerdo algo, será una estupidez; ya me ha ocurrido otras veces. Con las magnificencias que se ven y oyen en sueños, sucede lo que con el oro de los seres infernales. Cuando a uno se lo dan, es rico y espléndido, pero mirado a la luz del día no son más que piedras y hojas secas. ¡Ay! -suspiró melancólico, contemplando los pájaros cantores que saltaban alegremente de rama en rama-, ¡ésos son más dichosos que yo! ¡Volar! Éste sí que es un arte maravilloso. Feliz quien nació con él. Si me fuera dado metamorfosearme, lo haría en alondra".
En el mismo instante se le contrajeron los faldones de la levita y las mangas, transformándose en alas; los vestidos se trocaron en plumas, y los chanclos, en garras. El se dio cuenta, riéndose para sus adentros. "Bueno, ahora puedo convencerme de que estoy soñando, aunque nunca había tenido un sueño tan disparatado". Y remontándose a las ramas, se puso a cantar; pero en su canto no había poesía, pues su naturaleza poética había desaparecido. Como todo aquel que hace las cosas a conciencia, los chanclos no podían llevar a cabo dos funciones simultáneamente: quiso ser poeta, y lo fue; quiso ser pajarillo, y se convirtió en ave, pero cesando la propiedad anterior.
"Esto es lo más delicioso de todo -dijo-. De día estoy en la comisaría, sumido en la lectura de los expedientes más serios; de noche puedo soñar que vuelo, convertido en alondra, en los jardines de Frederiksberg. ¡Habría asunto para escribir una comedia!".
Bajó de nuevo para posarse en la hierba, y, volviendo la cabeza en todas direcciones, se puso a picotear los tallitos flexibles que, en proporción a su actual tamaño, le parecían largos como ramas de palmeras africanas.
Aquello duró unos instantes; luego lo envolvió la noche oscura: un objeto enorme -así se lo pareció- fue arrojado sobre él. Era una gorra con que un grumete quiso atrapar al pajarillo. Una mano que se metió por debajo, cogió al escribiente por la espalda y las alas, forzándolo a piar. En su primer momento de susto gritó con todas sus fuerzas: - ¡Mocoso desvergonzado! ¡Soy funcionario de la policía!-. Pero el muchacho no oyó más que un "¡pío-pío!". Dando un golpe al pájaro en el pico, se alejó con él.
En el paseo se encontró con dos escolares de la clase superior, me refiero a la clase social, entendámonos; pues como alumnos figuraban entre los de la cola. Compraron el pájaro por ocho chelines y de esta manera el escribiente fue a parar al seno de una familia de la calle de los Godos, de Copenhague.
"¡Menos mal que todo esto es un sueño! -dijo el escribiente-, de otro modo me enfadaría de verdad. Primero fui poeta, ahora soy alondra; seguramente fue la naturaleza poética la que me convirtió en este animalito. Sea como fuere, no deja de ser muy desagradable caer en manos de esta chiquillería. Me gustaría saber cómo terminará todo esto".
Los niños lo llevaron a una habitación hermosísima, donde los recibió sonriente una señora muy gorda. No se mostró muy contenta, empero, de que trajeran un pájaro tan vulgar como la alondra, pero, en fin, por aquel día les permitiría meterlo en la jaula desocupada que colgaba de la ventana. - Tal vez le guste a "Papaíto" -añadió, dirigiendo una sonrisa a un gran papagayo verde que se columpiaba muy orondo en su anillo, dentro de la preciosa jaula de latón-. Hoy es el cumpleaños de "Papaíto" -dijo con tonta ingenuidad-, y el pajarillo del campo lo va a felicitar.
"Papaíto" siguió columpiándose elegantemente sin responder una palabra; en cambio, rompió a cantar un lindo canario traído el año anterior de su cálida y fragante patria.
- ¡Escandaloso! -gritó la señora, echando sobre la jaula un pañuelo blanco.
- ¡pipip! -suspiró el pájaro-. ¡Vaya horrible nevada! - y se calló.
El escribiente, o, como decía la señorita, el pájaro campestre, fue a parar a una jaula, junto a la del canario y no lejos del loro. La única frase que sabía éste decir, y que a menudo repetía con mucha gracia, era: "¡Bueno, vamos a ser personas!".
Todo lo demás que gritaba era tan ininteligible como el trinar del canario, excepto para el escribiente, transformado ahora en pájaro. El comprendía muy bien a su compañero.
- Volaba en la verde palmera y el almendro florido -cantó el canario-. Volaba con mis hermanos por encima de flores bellísimas, por encima del lago, terso como un espejo, en cuyo fondo se mecían los reflejos de las plantas. Veía también muchos papagayos de vivos colores, que contaban graciosas historias.
- Eran salvajes -replicó el loro-, salvajes sin cultura.- Bueno, ¡vamos a ser personas! ¿Por qué no te ríes? Si la señora y los forasteros se ríen, también puedes hacerlo tú. Es un gran defecto el no ser capaz de disfrutar de lo que es verdaderamente recreativo. ¡Bueno, vamos a ser personas!
- ¡Oh!, ¿te acuerdas de las lindas doncellas que bailaban bajo las tiendas levantadas, junto a los árboles en flor? ¿Te acuerdas de los dulces frutos y del jugo refrescante de las hierbas silvestres?
- Sí, me acuerdo -dijo el papagayo-; pero aquí lo paso mucho mejor; me dan bien de comer y me tratan con todos los cuidados; sé que soy una buena cabeza y no pido más. ¡Seamos personas! Tú eres un alma de poeta, como dicen, pero yo poseo conocimientos fundamentales y gracia. Tú tienes eso que llaman genio, pero careces de discreción; te pierdes en esas elevadas notas naturales, y por eso te tapan. A mí no me lo hacen, pues les he costado más caro. Me impongo con el pico y, además, sé decir: ¡vitz, vitz, vitz! Bueno, ¡vamos a ser personas!
- ¡Ah, patria mía cálida y florida! -repitió el canario-. Quiero cantar tus árboles verde oscuro, y tus bahías tranquilas, donde las ramas besan la límpida superficie del agua; quiero cantar el gozo de mis relucientes hermanos, allí donde crecen las plantas-fuentes del desierto!
- ¡Cállate ya, con tus canciones tristes! -exclamó el papagayo-. Di algo que nos haga reír. La risa es el signo del sumo nivel intelectual. Dime tú si un perro o un caballo pueden reírse: no, llorar sí pueden, pero ¡reír!... Esta cualidad sólo se ha dado al hombre. ¡Ho, ho, ho! - riose el loro, y añadió su chiste: - ¡Vamos a ser personas!
- Tú, pobre y gris pajarillo danés -exclamó el canario­ también has caído prisionero. Seguramente en tus bosques hace más frío, pero por lo menos hay libertad. ¡Echa a volar! Se olvidaron de cerrar tu jaula, y la ventana superior está abierta. ¡Escapa, escapa!
El funcionario obedeció maquinalmente y salió volando de la jaula; en el mismo momento se oyó rechinar la entornada puerta de la habitación contigua y, con centelleantes ojos verdes, el gato de la casa se deslizó en la sala, lanzándose a la caza del pajarillo. El canario aleteó en la jaula, el papagayo gritó su "Vamos a ser personas", y el escribiente, presa de mortal pánico, levantó el vuelo, saliendo por la ventana y alejándose por encima de las casas y calles. Finalmente, hubo de detenerse a descansar. La casa de enfrente tenía algo de familiar, y como estaba abierta una de las ventanas, entró por ella: era su propio cuarto. Se posó sobre la mesa.
"¡Vamos a ser personas!" -exclamó, sin reparar en lo que decía; simplemente remedaba al papagayo y en el mismo instante volvió a ser el escribiente, sólo que se encontró sentado sobre la mesa.
- ¡Dios me ampare! -dijo-. ¿Cómo vine a parar aquí y me quedé dormido? ¡Qué sueño más agitado! ¡Y qué estupidez todo él!
6. - Lo mejor que trajeron los chanclos
Al día siguiente, a primera hora, y cuando el escribiente estaba aún acostado, llamaron a la puerta. Era su vecino de la puerta de enfrente, un joven seminarista.
- Préstame tus chanclos -dijo-, el jardín está muy mojado, pero hace un sol espléndido. Me apetece bajar a fumar una pipa.
Calzóse los chanclos, y poco después se encontraba en el jardín, donde crecían un ciruelo y un peral. En el centro de Copenhague, un jardincito como aquél es tenido por un lujo envidiable.
El seminarista se puso a pasear de un lado a otro; eran sólo las seis; en la calle resonó la corneta del postillón.
- ¡Ay, viajar, viajar! -exclamó el hombre-. Es la máxima felicidad del mundo, el colmo de mis deseos. Si pudiera hacerlo, se calmaría esta inquietud que me atormenta. Pero habría de ir muy lejos; quisiera ver Suiza, recorrer Italia...
Por fortuna, los chanclos obraron en seguida, pues de otro modo habría ido a parar demasiado lejos, tanto para el como para nosotros. Estaba en pleno viaje: se encontró nada menos que en Suiza, apretujado con otros ocho pasajeros en el interior de una diligencia.
Le dolía la cabeza, sentía un gran cansancio en la nuca, y la sangre se le había acumulado en los pies, que estaban hinchados y oprimidos por el calzado. Se hallaba en un estado de duermevela, entre dormido y despierto. En el bolsillo derecho llevaba una carta de crédito; en el izquierdo, el pasaporte, y en un pequeño bolso de cuero, sobre el pecho, algunas monedas de oro bien cosidas. En sus sueños veía que uno u otro de aquellos tesoros se había perdido; por eso despertó sobresaltado, y el primer movimiento de su mano fue dibujar un triángulo, de derecha a izquierda y al pecho, para cerciorarse de que sus cosas seguían en su sitio. Paraguas, bastones y sombreros se tambaleaban en la red de encima de su cabeza, privándose de gozar de un panorama maravilloso. Él lo miraba por el rabillo del ojo, mientras su corazón cantaba lo que ya cantara en Suiza por lo menos un poeta a quien conocemos, bien que hasta la fecha no ha dado el poema a la imprenta:
Es éste un mundo en verdad maravilloso.
Veo alzarse el Montblanc altivo y majestuoso.
¡Ah!, si dinero para viajar tuviera,
la vida fuera entonces llevadera.
La Naturaleza que lo rodeaba era grandiosa, grave y oscura. Los bosques de abetos parecían brezos en las altas rocas, cuyas cumbres se ocultaban en la niebla. Comenzaba a nevar, y soplaba un viento helado.
"¡Uf! -suspiró-, ojalá estuviésemos del otro lado de los Alpes. Sería tiempo de verano y habría cobrado la letra. El miedo que esto me da, me quita todo el gusto de estar en Suiza. ¡Ay, si estuviese ya del otro lado!".
Ahí lo tenéis en la otra vertiente de los Alpes, en plena Italia, entre Florencia y Roma. El Lago Trasimeno brillaba, a la luz vespertina, como oro flameante entre las montañas de un azul oscuro. En el lugar donde Aníbal derrotara a Flaminio, los sarmientos de la vid se daban ahora las manos, cogiéndose apaciblemente por los verdes dedos; simpáticos rapaces medio desnudos guardaban una manada de cerdos, negros como el carbón, bajo un grupo de olorosos laureles, al borde del camino. Si fuésemos capaces de reproducir fielmente aquel cuadro, los lectores gritarían: "¡Magnífica Italia!". Sin embargo, no fue ésta la exclamación que salió de los labios del seminarista ni de ninguno de los viajeros.
Moscas y mosquitos apestosos invadían por millares el interior del coche; era inútil esquivarlos con ramas de mirto; a pesar de todo, seguían picando. No había nadie en el carruaje cuyo rostro no estuviese hinchado por las sangrientas picaduras. Los pobres caballos eran devorados vivos; las moscas los atacaban a montones, y sólo de tarde en tarde bajaba el cochero a espantarlas. Se puso el sol, y un frío, pasajero pero intenso, recorrió la Naturaleza toda; verdaderamente no resultaba agradable; pero en derredor, montañas y nubes adquirían una maravillosa tonalidad gris, clara y brillante - ¿cómo decirlo? Ve tú mismo y míralo con tus propios ojos; mejor es esto que leer descripciones de viaje. Era incomparable, y así lo encontraron también los viajeros; pero iban con el estómago vacío, y el cuerpo cansado; todo el anhelo del corazón se centraba en un buen descanso nocturno: ¿lo encontrarían? Todos pensaban más en resolver este problema que en las bellezas naturales.
Atravesaban un bosque de olivos; era algo así como cuando en la patria pasaban entre nudosos sauces; y allí encontraron una solitaria posada, en cuya puerta se había estacionado una docena de mendigos lisiados; el más robusto de ellos parecía - para servirnos de una expresión de Marryat - "el hijo primogénito del Hambre, llegado a la mayor edad"; los restantes eran ciegos, o privados de piernas, por lo que se arrastraban sobre las manos, o mancos, sin brazos o sin dedos. Era la miseria harapienta.
- Eccellenza, miserabili! -clamaban, exhibiendo los miembros mutilados. Salió a recibir a los pasajeros la posadera en persona, descalza, desgreñada y con una blusa asquerosa. Las puertas estaban sujetas con bramantes; el suelo de las habitaciones era de una mezcla abigarrada de ladrillos; murciélagos volaban por debajo del techo, y en cuanto al olor...
- Creo que sería mejor instalarnos en el establo -dijo uno de los viajeros-, al menos allí sabe uno lo que respira.
Abrieron las ventanas para que penetrase un poco de aire fresco; pero antes que éste llegaron los brazos estropeados y la eterna lamentación: "Miserabili, Eccellenza!". En las paredes podían leerse numerosas inscripciones, la mitad de ellas contra la "bella Italia".
Sirvieron la comida: una sopa de agua, sazonada con pimienta y aceite rancio; luego un plato de ensalada aliñada con el mismo aceite. Los platos fuertes fueron huevos podridos y crestas de pollo asadas. Incluso el vino tenía un sabor extraño; sabía a medicina.
Por la noche colocaron las maletas contra la puerta, y uno de los viajeros se encargó de la vigilancia mientras los demás dormían. Al seminarista lo tocó actuar de centinela. ¡Qué bochorno! El calor era opresivo, los mosquitos zumbaban y picaban, y los "miserabili" del exterior seguían quejándose en sueños.
"Sí, eso de viajar está muy bien -díjose el seminarista-, sólo que sobra el cuerpo. Éste debiera poder descansar, mientras el espíritu vuela. Dondequiera que llego, noto que me falta algo, y siento como una opresión en el corazón; quiero algo que sea mejor que lo que tengo en aquel momento; pero, ¿qué es y dónde está? En el fondo sé bien lo que quiero: llegar a un fin feliz, el más feliz de todos".
No bien había pronunciado este deseo, se encontró en su patria, en su hogar; las largas cortinas blancas colgaban ante las ventanas, y en el suelo, en el centro de la habitación, había el negro ataúd, en el cual dormía él el sueño de la muerte. Su deseo quedaba cumplido: el cuerpo reposaba, y el alma viajaba. "No creas que nadie sea feliz antes de estar en la tumba" -tales fueron las palabras de Solón; y aquí se confirmaba su verdad.
Todo cadáver es una esfinge de la inmortalidad. La esfinge tendida en aquel féretro tampoco nos respondió a lo que el vivo había escrito dos días antes:
Tu silencio, ¡oh, muerte!, es horror y desconsuelo,
tus duras huellas son losas sepulcrales.
¿No puede el pensamiento elevarse al cielo?
¿Somos acaso sólo carne y huesos mortales?
Al mundo un gran dolor suele quedar oculto.
Para ti, solo siempre, fue una gracia la muerte.
Más pesó el mundo sobre tu corazón,
que la tierra que echaron sobre tu cuerpo inerte.
Dos personajes iban de un lado para otro de la habitación, dos personajes a quienes ya conocemos: el hada de la Preocupación y la mensajera de la Suerte. Las dos se inclinaron sobre el cadáver.
- ¿Ves -dijo la primera­ qué felicidad han proporcionado tus chanclos a los humanos?
- Al menos al que aquí duerme le dieron un bien eterno -respondió la otra.
- ¡Oh, no! -replicó la Preocupación-. Se marchó por propia voluntad, sin ser llamado; su fuerza espiritual no fue bastante para explotar los tesoros que su destino le asignó en esta Tierra. Voy a hacerle un favor.
Y le quitó los chanclos de los pies, con lo cual terminó el sueño de muerte, y el resucitado se incorporó. La Preocupación desapareció, llevándose los chanclos; seguramente los consideraría como de su propiedad.